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L'intervista

Quando l'inviato speciale Francobaldo Chiocci, il Papa della penna, fu direttore del Corriere al tempo della Gazzetta di Arezzo

Luca Serafini

15 Marzo 2025, 07:39

Francobaldo Chiocci

Francobaldo Chiocci

Il giornale locale ha un valore straordinario, anche superiore a quello dei quotidiani nazionali, perché tocca direttamente la vita delle persone nei loro territori”. E se lo dice Francobaldo Chiocci, che è stato inviato speciale in tutto il mondo per una vita, il concetto non si discute. Reporter di razza, autore di memorabili scoop, “il Papa della penna” ha diretto il nostro giornale a fine anni Ottanta quando il Corriere Aretino uscì per un periodo dalla casa madre Corriere dell'Umbria e mutò la testata, con l'imprenditore marchigiano Edoardo Longarini che editava in Italia innumerevoli Gazzette, tra cui Firenze (ex “la Città”), Siena, Prato, Lucca e, appunto, Arezzo.

In casa sua, a Gubbio - piazza Grande, accanto al palazzo dei Consoli - Chiocci ha un mappamondo con cento spilli rossi infilati sugli Stati dove dagli anni Sessanta in su è stato a scovare e raccontare notizie. Classe 1931, con lucidità invidiabile ricorda, analizza, commenta.

- Direttore, un giorno lei si presentò nella redazione di Arezzo, in Corso Italia 205: che stagione fu quella?

Arezzo... che bellissima città. Trovai un giornale locale vivace, dinamico. Io avevo chiuso la mia lunga stagione a Il Tempo: era finito un ciclo dopo anni straordinari di servizi da inviato. Fu il mio collega Giuseppe Crescimbeni, anch'egli uscito da Il Tempo e passato alle Gazzette di Longarini, lui di Foligno io di Gubbio, a scegliermi come direttore per le edizioni della Toscana. Era un'esperienza per me nuova, una sfida che affrontai con entusiasmo. Dalla redazione di Firenze guidavo le varie Gazzette della regione.

- E portò un aretino alla guida della redazione fiorentina.

Sì, Ivo Brocchi, di cui conservo un ottimo ricordo. La situazione editoriale era stimolante e complessa. I quotidiani locali creavano nuovi spazi, nuovi lettori. Ricordo il valore dei giornalisti di allora. Con l'imprenditore marchigiano Longarini avevo il contratto per tre anni, poi per mia scelta interruppi prima, per andare al Corriere Adriatico, dove la storia si interruppe bruscamente per un disaccordo con l'editore: aveva licenziato una giornalista senza dirmi nulla. Per indole e schiettezza, il ruolo di direttore, lo riconosco, non faceva per me.

- Ma per classe, stoffa, fiuto, lei ha lasciato un segno nella storia del Corriere. A partire da quella auto-definizione di “specializzato nel generico”.

Un giornalista non specializzato racconta tutto in modo comprensibile a tutti. Non dare nulla per scontato. Descrivere la verità.

- Proprio ciò che lei fece nel suo primo, storico, reportage in India per Il Tempo.

Lavoravo agli Interni. Il direttore Renato Angiolillo, fondatore del giornale, un giorno mi chiama: “Domani vai in India”. Ero titubante, accampai qualche dubbio. E lui: “A ognuno le sue specifiche incompetenze”. Un occhio non abituato vede meglio, con obiettività.

- E cosa c'era da vedere in India?

Una grande montatura, una bufala. In quel periodo, forse per distogliere l'attenzione dai veri problemi italiani, era nata questa storia lacrimevole dell'India dove la gente veniva sterminata dalla fame: si diceva, anche da parte di papa Paolo VI, che era in atto un'ecatombe di morti per povertà, e miseria. “Guagliò, questa storia puzza...”, mi disse il direttore.

- E per Francobaldo Chiocci iniziò la vita da reporter.

Andai a documentare. Raccontai la verità, demistificai la situazione. Mentre dall'Italia partivano colonne di aiuti di grano e farina, parlai con le autorità locali, in primis l'ambasciatore, che mi disse: “Ma in Italia siete impazziti?”. C'era una povertà endemica, fisiologica, ma non esisteva un'emergenza. I giornalisti di altre testate si mettevano d'accordo: “Oggi quanti morti per fame scriviamo che ci sono stati?”. Io no. E la stessa Indira Gandhi si dimostrò indignata delle campagne lacrimogene che diffamavano il suo Paese. E assicurò che non c'era nessuna emergenza. Sulle lacrime e le bugie per l'India scrissi un libro.

- Direttore, ma com'è iniziata la tua carriera?

Ero giovanissimo, con un'intervista spedita col fuorisacco dalla stazione ferroviaria di Fossato di Vico, indirizzata a La Nazione e a Il Tempo di Roma. Capitò questo: a Gubbio andavo a giocare a tennis da un console italo inglese e un giorno, mentre prendevamo il tè, ebbi modo di parlare con un suo ospite. Era il medico del Mostro di Londra, di cui all'epoca si parlava moltissimo. Il killer seriale era un uomo impotente che adescava ragazze, le uccideva, le eliminava. Intervistai il medico e quel mio servizio ebbe un grande successo: la Nazione lo pubblicò, il Tempo mandò come inviato addirittura Igor Man, e io fui nominato collaboratore. Nel 1956 andai a Roma.

- Firma di punta de Il Tempo per decenni, poi all'Europeo diretto da Feltri e sempre con Feltri all'Indipendente e al Giornale. Visione globale, ma l'informazione locale l'ha sempre attirata.

Sì. Aggiungo anche l'esperienza giovanile, sempre con Crescimbeni, al settimanale Centro Italia. La mia carriera e la sua, se si guarda bene, si sono sempre intrecciate, al Tempo e alle Gazzette. Oggi mio figlio Gian Marco è direttore del Tg1 e la figlia di Crescimbeni, Costanza, è vice direttore. A proposito, Gian Marco ha cominciato giovanissimo la sua attività proprio con le Gazzette, a Prato per la precisione.

- Padre Pio, molto prima che diventasse San Pio, è stato un altro tema sviscerato a fondo negli anni de Il Tempo.

Venni in possesso di documenti scottanti. C'era il tentativo di screditare Francesco Forgione, il frate di Pietrelcina, alludendo a truffe, simonia, ma io avevo tra le mani materiale che, verificato e raccontato, dette origine ad una serie di pagine monografiche che mossero le acque. Per dire, un titolo fu: Le stimmate di un frate sotto l'unghia dei diavoli. Il Vaticano si irritò. Angiolillo, che mi chiamava sempre affettuosamente “guagliò”, mi spronò ad andare avanti e con fermezza. Avevamo intercettato e pubblicato una valanga di documenti che inchiodavano i diffamatori e i persecutori di padre Pio. Ne nacque una lunga campagna di stampa con la pubblicazione di altre inchieste e numerosi libri, il principale “Padre Pio storia di una vittima”, insieme a Luciano Cirri.

- I suoi reportage dall'estero non si contano, raccontati poi nel libro C'era una volta l'inviato speciale.

Ho anche rischiato la pelle in Iran quando le autorità ci portarono a visitare la famigerata prigione di Evin, vicino a Theran, tornata di recente alla ribalta per la detenzione di Cecilia Sala. Rimasi inorridito dai condannati a morte, tutti mujaheddin del popolo, cioè comunisti, che ci venivano presentati dal procuratore generale dell'Islam come rei confessi che si autoaccusavano di aver diffamato l'Islam. Mi rifiutai di dare la mano al giudice boia e il pasdaran che mi accompagnava se ne accorse. Fortunatamente evitò di denunciarmi. Magdi Allam, allora a la Repubblica, riferendosi al mio gesto temerario poi scrisse: “Ho temuto per il suo coraggio che io non avrei mai avuto”. Sono anche stato al fronte e ho visto cose terribili, come i bambini mandati a camminare sui campi minati con una chiave al collo, la chiave per aprire le porte del paradiso.

- Reportage di ogni tipo.

Ho intervistato alla macchia il capo dell'organizzazione militare clandestina Ira durante la guerra di religione in Irlanda. Sono stato con le navi militari italiane a salvare i boat pepole in Vietnam. Ho scoperto dopo la strage di piazza Fontana il rifugio di Feltrinelli in Carinzia. Ho seguito tutti i summit tra Reagan e Gorbaciov, a cominciare da Reykjavik.

- Come nacque la definizione di Papa della penna?

Da un lapsus in redazione del collega e amico Gianni Letta, dopo l'elezione di Albino Luciani, che avevo intervistato poco prima. “Hanno eletto Chiocci, chiamate Luciani!”. Al di là di questo, mi onorano i premi che mi sono stati assegnati, come il Premio Hemingway, il Premio Carlo Casalegno, quello conferitomi dai Cappuccini a San Giovanni Rotondo come “Cercatore di verità”.

- Direttore, il Corriere di Arezzo compie 40 anni.

Vi faccio i migliori auguri. Di cuore. La crisi dei giornali cartacei è un fatto davanti agli occhi di tutti, ma i giornali locali resistono perché hanno un valore unico, la forza di una missione quotidiana di informazione a contatto con la gente. Inviati speciali nel proprio territorio.

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