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Il contributo

Io, il Corriere di Arezzo e quell'intervista a Lauro Minghelli

Andrea Avato

27 Marzo 2025, 06:44

Andrea Avato

Andrea Avato

Io in realtà volevo fare il calciatore. Solo che nell'estate del 1990 mi convocò in sede, in via Vittorio Veneto, il responsabile del settore giovanile dell'Us Arezzo. Giocavo lì da tre anni e avrei voluto continuare fino alla prima squadra. Remo Maccarini era un uomo di poche parole, dal cuore grande e dall'aria truce. Competente, gran lavoratore, poco incline alle smancerie. Mi fece sedere di fronte alla sua scrivania per dirmi una cosa molto semplice: “Tu sei di dicembre del '72, l'anno prossimo in Berretti dobbiamo far giocare i '73 e quindi, anche se ci dispiace, ti svincoliamo”.

Crudo, diretto, letale. One shot, one kill.

Tralascio lo scoramento misto a rabbia, rassegnazione e non so cos'altro e vado avanti. Messa a fuoco la questione, raccattati i cocci del miraggio che mi aveva accompagnato per i primi diciott'anni scarsi di vita, e che era appena andato in frantumi, realizzai in fretta che non esisteva alternativa: dovevo scalare al mio sogno numero due. Scrivere. Fare il giornalista.

Con gli esami di maturità distanti ancora dodici mesi, con la prospettiva di giocare a calcio senza più chissà quali sbocchi colmi di gloria, bisognava virare altrove.

Indossai una camicia bianca e la cravatta, che mi sembrava rispettoso presentarsi ben vestito in una redazione, poi montai in sella al mio Sì Piaggio e salii fino in via Cavour, dove avevo ottenuto un colloquio con il responsabile della Gazzetta di Arezzo. Parlai con Romano Salvi, al quale spiegai che mi sarebbe piaciuto occuparmi di sport. E lui, con una affabilià che mi sollevò da una fisiologica riverenza, mi fece conoscere il caporedattore. Luigi Alberti.

Volle subito che gli dessi del tu, gli confessai che ero malato per il calcio, che seguivo sempre l'Arezzo e lui, per testare le mie capacità, mi mandò come prima cosa a fare un servizio sul nuoto. Un bel debutto... Quindi, il giorno prima di Italia-Argentina, semifinale dei Mondiali, mi spedì per il centro storico a interpellare quei pochissimi disgraziati che erano in giro sotto il solleone, chiedendo loro un pronostico sulla super sfida dell'indomani. Più che un sondaggio venne fuori un plebiscito, perché riuscii a estorcere un parere a dieci persone al massimo, tutte di Arezzo e tutte con gli occhi foderati di azzurro. Infine, preso atto che due discorsi in fila ero in grado di scriverli, per l'inverno mi assegnò l'ingrato compito di aggiornare i risultati del campionato under 18.

Passai il pomeriggio di ogni sabato che Dio metteva in terra, all'interno della redazione. Telefonando al bar di Bibbiena, di Levane, di Cortona, di Anghiari per chiedere lumi sull'esito delle partite, col barista che, regolarmente, mi lasciava qualche istante lì in attesa e io lo sentivo che, appoggiata la cornetta sul tavolo, domandava a voce alta: “C'han fatto oggi quei ragazzi?”. Poi tornava e mi dava il responso. Piano piano, giornalisticamente parlando, andò meglio.

Alla Gazzetta di Arezzo, poi Corriere di Arezzo, sono rimasto per undici, intensi, bellissimi anni. Ho costruito rapporti personali che mi gratificano ancora oggi. Mi sono fatto le ossa impaginando articoli, titolando pezzi sugli argomenti più disparati, ritagliando fotografie, prendendo dimestichezza con timoni e menabo, restando incollato alla cornetta in cerca di una conferma, una smentita, facendo le ore piccole per l'ultimo controllo delle stampe con i poligrafici.

Ho ancora conservati i vecchi ritagli di giornale, con la mia firma in calce ai testi, che mi sono serviti per prendere la tessera da pubblicista nel 1998. Nei cassetti c'è anche la tesi che presentai per l'esame da professionista del 2003: “Serse Cosmi, l'uomo nuovo del calcio italiano”.

L'allenatore che ha riportato l'Arezzo tra i professionisti è stato il punto di riferimento dei miei inizi, di una gavetta che non ho mai considerato tale perché era soprattutto divertimento, passione pure, entusiasmo.

In quel periodo ho conosciuto Lauro Minghelli, un ragazzo come me, un giocatore forte che si sarebbe spento giovanissimo, pochi anni dopo, per colpa della Sla. Il 28 aprile 1999 mi rilasciò un'intervista per il Corriere. Aveva appena scoperto di avere quella malattia tremenda, anche se ancora dai contorni indefiniti. In campo non metteva piede da diversi mesi, ma si portava dentro lo spirito battagliero che lo ha sempre accompagnato. Forse era incoscienza, forse era inconsapevolezza. L'unica cosa certa è che a rileggerle oggi, quelle parole, vengono gli occhi lucidi. Un abbraccio Lauro.

Mi scappa da ridere, invece, se ripenso a un'altra intervista che non ho mai pubblicato. L'avevo fatta a Francesco Graziani, presidente amaranto. E l'avevo anche scritta e titolata. Ma non superò l'esame finale di Luigi Alberti, che già chiamavo semplicemente Gigi. La ritenne troppo agiografica, troppo morbida, troppo sdolcinata: tutti eufemismi rispetto al termine che utilizzò lui. Fatto sta che la cancellò con un clic e me la fece riscrivere dal primo all'ultimo rigo, in tarda serata, che io avevo anche da fare e dovetti scapicollarmi per non arrivare lungo con i tempi, rischiando di far uscire il giornale con una pagina bianca.

La redazione si era già trasferita in piazza Risorgimento, sopra il Dolce&Salato, locale dove ho bevuto aperitivi e caffè, brindato per dimenticare un buco preso dalla concorrenza e per celebrare una notizia scovata in anteprima. Era un mondo diverso quello, internet e gli smartphone non avevano ancora fagocitato né il vivere quotidiano né il mestiere del giornalista.

Che oggi come allora resta il lavoro precario più figo del mondo.

Buon compleanno Corriere!

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