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LA STORIA

La Lebole, le lotte, l'indipendenza e ora la rinascita. La Lebolina Gabriella racconta

Francesca Muzzi

03 Agosto 2025, 04:46

La Lebole

La Lebole

Gabriella Salvietti, ha lavorato 36 anni alla Lebole. Aveva 18 anni quando ci mise piede. Non è stata solo un’operaia. Ma anche una spalla su cui contare. Ha combattuto Gabriella per le leboline. “Ma non sono la paladina di nessuno”, ci tiene a dire ancora oggi. “Da sola non ho fatto niente, ma insieme alle altre mie colleghe sì”. Hanno ottenuto, per esempio, i pullman che collegavano il posto di lavoro con le quattro vallate, hanno trasformato uno spazio inerme in quella che sarà, più tardi, la mensa e, tutte insieme, hanno costruito asili. Oltre a creare quello che hanno ancora. L’amicizia con le altre colleghe che con il tempo sono diventate amiche. Alla Lebole si sono sposate, sono diventate mamme e poi nonne. Un legame che prosegue ancora oggi. “Quando ci riuniamo per pranzi o cene arriviamo fino a 300”, dice Gabriella.

Lei di Arezzo non è nativa. Come tante in quel periodo, arriva dalla provincia. Esattamente da Cortona. Era il 1962, quando decise di fare “la prova” quando ancora lo stabilimento Lebole era alla Chiassa. Gli dissero che tra pochi mesi avrebbero aperto ad Arezzo e lei fu tra le prime a metterci piede in quell’area che martedì scorso ha comprato mister Prada, Patrizio Bertelli. Proprio a lui, le ex leboline, hanno mandato una richiesta, quella di dedicare un pezzetto della nuova area Lebole alla storia di quell’azienda che ha cambiato le vite, soprattutto delle donne. “Per tante di noi lavorare alla Lebole voleva dire indipendenza. Prima di tutto uscire da casa e poi avere degli obiettivi. Una casa, una macchina, un matrimonio. Lo stipendio della Lebole ti permetteva di vivere la condizione di donna senza dipendere dai genitori o anche dal marito”. Ed era una grande conquista negli anni Sessanta e Settanta, anche se non sempre, le Leboline vennero appoggiate dalla città, come magari successe per il fabbricone.

Gabriella lo racconta sempre alle giovani generazioni, quelle che oggi spalancano gli occhi e dicono “per davvero era così?”. Sì era così ieri, per essere così oggi. Racconta Gabriella: “Quando gli operai del fabbricone scioperavano e andavano per il corso a fare le manifestazioni, i commercianti tiravano giù le saracinesche dei negozi in segno di rispetto. Quando invece si manifestava noi, qualcuno ci ha anche detto di tornare a casa e di ricominciare a fare i lavori da casalinghe”. Ma loro, le leboline, nei loro camici celesti-carta da zucchero, sono sempre andate avanti a testa alta e anzi uno dopo l’altro i loro diritti li hanno ottenuti. Il primo furono i trasporti: “Quando si arrivava alla stazione, perché in tante venivano dalle vallate, non c’erano bus che collegavano la stazione con la Lebole. E allora noi si andava a piedi. Lungo la ferrovia e più di una volta, la polizia si è arrabbiata, perché giustamente si camminava lungo i binari ed era pericoloso, ma così si faceva prima”.

“A quel punto dovevamo trovare una soluzione. E allora, insieme, siamo andate in tutti e 39 comuni della provincia e abbiamo parlato con chi di dovere. Poco dopo c’erano 26 pullman che portavano le operaie dai propri paesi fino alla Lebole”. Tra le conquiste anche la mensa. “All’inizio ognuno di noi si portava il tegamino da casa e piano piano abbiamo ottenuto una stanza dove mangiare, che poi è diventata la mensa”. “La Lebole, quando ci siamo andate, provenienti dalla Chiassa, era uno scatolone vuoto. Noi lentamente, tutte insieme lo abbiamo riempito. Io? Io facevo i colli delle giacche”. “Sì, c’erano orgoglio e soddisfazione. La fabbrica andava, fino a quando non è stata venduta alla Marzotto. Ha rappresentato la ricchezza per una città. Via Fiorentina completamente bloccata quando il giorno si usciva, perché eravamo tante lavoratrici. Pensate che in quel periodo, anni Settanta, sono cominciati a fiorire in città e non solo asili e anche i nidi, perché le donne avevano cominciato a lavorare e a non stare più a casa”.

E poi quella specie di mercatino. “Nell’area Lebole, quando si usciva c’erano alcune bancarelle. Vendevano sì generi alimentari, ma anche altra oggettistica”.

Poi nel 2002 la vendita e la chiusura della Lebole, praticamente un colpo al cuore. “In questi anni vedere quell’area ridotta in quel modo – dice ancora Gabriella – era di una tristezza infinita. Per fortuna è stata venduta e la vedremo rinascere”. Nei giorni scorsi proprio le ex leboline, come detto, hanno mandato una lettera a Bertelli per chiedergli che venga conservato, nel nuovo progetto, uno spazio che racconti che cosa era la Lebole. Lui ha risposto che lo farà. E Gabriella sottolinea: “Nessuno deve dimenticare la storia delle leboline che non erano solo operaie che cucivano i completi da uomo, ma donne che hanno tracciato strade, tutte percorribili, alle altre donne e ai loro diritti. Era la Lebole, la nostra famiglia che ci ha permesso di realizzare i sogni di noi che entravamo ragazze e uscivamo pensionate. Per questo chiediamo di non essere dimenticate. E siamo sicure che così sarà”.

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