Tragedia sul lavoro
Piero Bruni e Filippo Bagni
La morte di Filippo Bagni e Piero Bruni, impiegati dell'Archivio di Stato di Arezzo, “era evitabile e doveva essere evitata”. Invece il luogo di lavoro dove i due colleghi trovarono la morte il 20 settembre 2018, diventò trappola mortale perché ci fu “la mancata individuazione, valutazione e mitigazione del rischio asfittico derivante dal gas argon presente nella struttura”. Un fattore di rischio “che le figure datoriali e i componenti del Servizio di prevenzione e protezione dovevano gestire, contenere ed annullare”. Ad affermarlo è il giudice monocratico del tribunale di Arezzo, Giorgio Margheri, in un passaggio chiave delle 205 pagine di motivazioni alla sentenza di primo grado, che ha definito quattro condanne per il duplice omicidio colposo sul lavoro (per “negligenza, imprudenza e violazioni di norme di legge”).

Era il 15 maggio scorso quando il processo si concluse così: un anno e 8 mesi di reclusione per Claudio Saviotti, direttore dell'Archivio al momento della tragedia; un anno e 8 mesi per Antonella D'Agostino, direttore fino al settembre 2016; un anno e 8 mesi per Andrea Pierdominici, addetto al Servizio di prevenzione e protezione; un anno e 10 mesi per Monica Scirpa, responsabile del Servizio di prevenzione e protezione. A tutti è stata concessa la sospensione condizionale della pena.
Il deposito delle motivazioni è avvenuto prima di Natale e ora le difese possono proporre ricorso in appello contro i verdetti. I legali sono gli avvocati: Roberto e Simone De Fraja, Vincenza Saltarelli, Fabio Lattanzi, Martina Pompei. I direttori sono stati qualificati dal giudice datori di lavoro, come apicali dell'ufficio ministeriale, con tutte le responsabilità che ne conseguono.

Il lungo processo celebrato alla Vela, secondo il giudice Margheri ha fatto emergere “evidenze e precise responsabilità”. Questi i passaggi salienti delle motivazioni: “la mancata individuazione del rischio presente presso l'Archivio di Stato non solo ha portato alla mancata attuazione delle necessarie misure e presidi atti a neutralizzare tale fattore di rischio, ma ha condotto all'instaurazione di prassi altamente pericolose che hanno portato ai drammatici eventi del 20.9.2018.” Secondo il giudice “era preciso compito e dovere delle figure datoriali (cioè dei direttori) e dei componenti effettivi del Servizio di prevenzione e protezione (la responsabile e l'addetto) individuare il fattore di rischio asfittico derivante dalla possibile fuoriuscita del gas argon e adottare gli idonei presidi antinfortunistici, informare/formare i lavoratori sui corretti comportamenti da tenere, impedire il formarsi di prassi foriere di elevati profili di rischio per gli stessi lavoratori”.
Quella mattina presto l'allarme del sistema antincendio malfunzionante scattò e i due impiegati - “completamente all'oscuro del pericolo dell'argon” - scesero a controllare nel vano delle bombole del gas invisibile e inodore che serve per spegnere il fuoco: crollarono a terra asfissiati per mancanza di ossigeno, senza protezioni e senza consapevolezza del rischio. Nel vano chiuso delle bombole, nel locale seminterrato, non c'era una valvola di sicurezza che scaricasse all'esterno né un sistema di ventilazione, né sensori che indicassero i bassi livelli di ossigeno. Assenti le misure antinfortunistiche.

“Le responsabilità penale per tale tragico evento - prosegue Margheri - vanno rinvenute nei soggetti deputati a gestire e neutralizzare il rischio lavorativo, ovverosia le figure datoriali e i componenti (effettivi) del Servizio di prevenzione e protezione.” Per le altre figure che la procura con il pm Laura Taddei aveva portato a giudizio (in tutto 11 imputati, fra cui tecnici, manutentori e pure un ex comandante dei vigili del fuoco), il giudice afferma: “Nell'impianto accusatorio si è cercato di allargare la platea delle figure responsabili, ma l'istruttoria ci ha consegnato l'evidenza che gli altri soggetti imputati nel duplice omicidio colposo non erano destinatari di una posizione di garanzia tesa a prevenire e a gestire il cosiddetto rischio lavorativo e che, inoltre, le condotte a loro ascritte non sono concretamente risultate in rapporto eziologico con gli eventi mortali”.
Gli imputati assolti erano difesi dagli avvocati: Tiberio Baroni, Francesca Arcangioli, Barbara Sodi, Mario Cherubini, Eriberto Rosso.
Nelle indagini sulla assurda fine dei due lavoratori erano emerse installazioni approssimative, difetti, riparazioni grossolane e deficit dell'impianto (tant'è che scattava senza motivo), ma un rapporto di causa ed effetto con la tragica fine di Bagni e Bruni non è stato evidenziato. Responsabile, per il giudice, solo chi per legge aveva l'obbligo di cautelare i dipendenti. Per i condannati, secondo il giudice “le violazioni alle norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono risultate macroscopiche, plurime e con alto grado di rimproverabilità”.
Riconosciuto il diritto al risarcimento ai familiari delle vittime (provvisionale 470 mila euro), rappresentati dagli avvocati Riccardo Gilardoni, Piero Melani Graverini e Luca Fanfani.

Questa la successione drammatica di quella mattina all'Archivio di Stato: 7.39, suona l'allarme antincendio, i dipendenti Piero Bruni e Filippo Bagni si recano alla centellina al primo piano e tentano di bloccarlo con relativa procedura; alle 7.43 i dipendenti sentono un forte rumore, come un grosso soffio o getto di aria ad alta pressione proveniente dai piani inferiori: ipotizzano sia “partita una bombola”; 7.44 Bruni scende solo per una prima ispezione ma prima di arrivare risale per prendere le chiavi del deposito bombole; 7.45, il centralinista contatta la manutenzione dell'impianto e il direttore per segnalare l'allarme; 7.48, Bagni e Bruni prendono le chiavi del deposito e scendono insieme; 7.53, dopo aver aperto la porta del deposito, i due si trovano in un'atmosfera satura di gas argon, perdono conoscenza e trovano repentina morte per asfissia derivante da carenza di ossigeno: Bruni crolla sulla porta, Bagni sulle scale; 8.00, il collega Massimo Magi timbra il cartellino, scende a verificare e trova i colleghi a terra, resta stordito e urla aiuto, risale; 8.05, parte la richiesta di aiuto ai vigili del fuoco che arrivano.
Filippo Bagni aveva 55 anni, Piero Bruni 59. Lo Stato ha conferito alle vedove una medaglia. Cerimonie, intitolazioni, memoria. Negato in sede civile dal ministero lo status di vittime del dovere. E indenne, lo Stato, nel processo penale. Il direttore Saviotti, respingendo le accuse, dopo il verdetto dichiarò: “Noi datori di lavoro? Non è così. Nessuno ci ha mai messo al corrente della pericolosità dell'argon. Ho perso due amici. Potevo essere con loro o al loro posto”.
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