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Castiglion Fiorentino

"Vi racconto Fabrizio Meoni mio padre". Gioele, la sua Dakar, il figlio in arrivo e 20 anni sulla scia del genitore mito

Venti anni dopo il tragico incidente intervista al figlio del re dei rally motociclistici

Luca Serafini

10 Gennaio 2025, 10:39

Gioele Meoni

Gioele Meoni

Venti anni senza Fabrizio Meoni. Una cifra che fa effetto. Una data, l’11 gennaio 2005, che segna un prima e un dopo. Nello sport, nella solidarietà verso l’Africa, ma prima di tutto nella vita della famiglia Meoni. Domani a Castiglion Fiorentino grandi celebrazioni in onore del campione dei rally, mito della Dakar vinta nel 2001 e 2002, caduto su una duna della Mauritania, a Kiffa, nell’edizione che nei propositi doveva chiudere, a 47 anni, un ciclo glorioso. Alla vigilia dell’anniversario, incontriamo Gioele, il figlio del campione, motociclista anche lui, un anno fa giunto al traguardo della moderna Dakar, fondatore della app per sport outdoor Whip Live e prosecutore delle opere benefiche per i poveri dell’Africa, con la Fondazione Fabrizio Meoni.

- Gioele, come ricorda quel giorno, come le fu comunicata la notizia?

Ero a scuola, facevo la terza media, ricordo come fosse ieri che era una mattina come tante altre, quando dopo la ricreazione arrivò la preside in classe, prima fece uscire la mia professoressa per parlarle, poi fui chiamato io e capii che c’era qualcosa che non andava. La mamma mi aspettava giù nell’atrio all’ingresso della scuola. Non ebbe subito la forza di dirmi cosa era successo, che il babbo non c’era più: mi disse che era caduto ed era molto grave. Poi però nel tragitto verso casa, senza aspettare oltre, visto che tra noi non ci sono mai stati segreti, mi disse che per il babbo non c’era stato nulla da fare. Fu un momento molto brutto. L’11 gennaio per me da allora è sempre stata una data dolorosa, preferisco ricordare il 31 dicembre, il suo compleanno. Quest’anno però affronterò l’anniversario con occhi nuovi.

- Perché?

Perché l’anno scorso abbiamo raggiunto il nostro sogno: fare la Dakar insieme, l’obiettivo che ho sempre voluto, per cercare di chiudere un cerchio. Dico che l’abbiamo fatta insieme, io e Fabrizio, perché l’ho sentito al mio fianco. C’era una promessa antica che abbiamo mantenuto. Così per la prima volta spero, grazie alla mia Dakar, di affrontare l’11 gennaio con spirito diverso.

- Fabrizio, un campione, un modello di vita, per lei oltre tutto questo, soprattutto, il padre. Come genitore come lo ricorda?

E’ stato un esempio a prescindere dal campione che tutti conoscono. Per me è stato un padre eccezionale. A fine mese anche io diventerò babbo e spero di poter trasmettere a mio figlio almeno l’uno per cento di quello che lui ha sempre trasmesso a me: e cioè che con la passione e la dedizione si possono ottenere tanti risultati, in ogni campo, ma senza mai pestare i piedi a nessuno, senza mai essere irrispettosi nei confronti delle altre persone, che siano compagni di scuola, di avventura, di sport, di lavoro o persone che neanche si conoscono. Questo è stato l’insegnamento più grande che lui mi ha dato e che, anche se sarà difficile, cercherò come genitore di attuare.

- Tecnicamente, quali erano le caratteristiche di Fabrizio che lo hanno reso unico nei rally?

Aveva caratteristiche fisiche che gli permettevano di fare la differenza. Per vincere non una, ben due Dakar, e soprattutto all’età in cui le ha vinte lui, era qualcosa di fuori dal comune. Le doti che solamente i campioni hanno, nel suo caso erano raddoppiate appunto per l’età. Credo abbia preso il meglio dai suoi genitori. Mia nonna, sua mamma, era un signora di 45 chili e alta un metro e 50 ma con una forza incredibile. Mio nonno invece era un uomo di un metro e 95, più robusto. Sì, secondo me mio babbo ha ereditato le caratteristiche migliori da entrambi, infatti aveva una forza straordinaria e una resistenza eccezionale sia alla fatica che al caldo, componente che nei rally influisce molto, infatti lui sudava tantissimo, cinque volte più di una persona normale quando faceva sport. Strizzava i cuscini del casco dal sudore, era il suo modo naturale di refrigerarsi. Il rally sta al motocross come la maratona sta ai cento metri: lui era un maratoneta, il suo fisico riusciva a reggere sforzi intensi per la durata, come agli altri non riusciva e questo, applicato alla moto, con la sua tecnica di guida, a volte irruenta ma molto efficace soprattutto nei terreni sabbiosi, ne creava un ‘mostro’ dal punto di vista sportivo. Il fatto di essere molto forte gli ha permesso di vincere anche con moto che altri piloti, pure molto più giovani di lui, non riuscivano a domare.

- Lo scorso anno lei ha fatto la Dakar, categoria malle moto o motul, cioè senza assistenza: esperienza che l’ha segnata profondamente.

Anche se diversa da allora e corsa in altri Paesi, la Dakar è la gara di rally più dura al mondo, farla nella categoria senza assistenza è stata una sfida che avevo in sospeso, volevo per forza portarla a termine perché era il nostro sogno. Padre e figlio. Senza guardare la classifica, ce l’ho fatta correndo con lui. Quando l’11 gennaio 2024 dormivamo nel deserto tra le dune con la tenda, senza comunicazione, mi sono sentito guidato da lui, e a differenza degli altri, arrivati sfiniti, non mi sembrava neanche di aver fatto quella tappa lì, la più dura di tutte. Ed è stata proprio quella tappa in cui ho corso più forte. Anche se mi ero rotto la spalla al rally del Marocco. Sono entrato tra i primi 40 assoluti ed è stato un momento bello, intenso. All’arrivo ho tirato fuori tutta l’emozione che in gara avevo dovuto ingoiare perché quando si corre alla Dakar, l’insegnamento principale che mi ha dato mio babbo, direttamente e indirettamente, è che bisogna concentrarsi su quello che abbiamo da fare e non pensare ad altro, neanche a chi sta a casa, all’amico, alla moglie, alla famiglia. Lo so, è una cosa egoistica ma la moto purtroppo è questo. E poi, altra cosa: quando sei in gara non hai modo di apprezzare quello che c’è intorno. Te ne accorgi solo alla fine.

- Già, e Fabrizio si innamorò dell’Africa.

Infatti, quando arrivò da vincitore a Dakar, riuscì a vedere intorno cosa c’era: tanta povertà. E questo gli dette modo di iniziare, come riconoscenza verso quella terra, le sue opere di solidarietà che poi la Fondazione ha continuato dal 2007. Un impegno su strutture scolastiche e sociali che va avanti e che adesso, posso anticipare, tra qualche mese vedrà un cambiamento nella forma legale, tecnica, ma non nella sostanza. La Fondazione diventerà Associazione Fabrizio Meoni, ne sarò presidente, e sposteremo l’impatto delle iniziative anche in Italia, in ambito sportivo, e parlo di moto, per avvicinare i ragazzi a questa disciplina, trasmettere i valori che erano di mio padre e sostenere le promesse del fuoristrada. E’ una operazione alla quale stiamo lavorando d’accordo con mia mamma Elena.

- Vero che a fine gennaio parteciperà alla Ronda Ghibellina Trail?

Sì. Sono sempre stato uno sportivo individualista, come mio babbo, molto competitivo, cerco di dipendere da me stesso: se le cose vanno male la colpa la do a me, mi piace mettermi alla prova step dopo step. Mi piace correre a piedi, andare in bici. Ero legato a Renato Menci, padre della Ronda, tra i primi utilizzatori della app Whip Live per il sistema di sicurezza: ho imparato molto da lui come organizzatore, farò la Ronda anche in segno di rispetto per lui e per quello che ha creato.

- E con la moto, i prossimi impegni?

Continuo con il campionato di Motorally per farmi ancora esperienza e in futuro chissà, vederemo se riusciremo a trovare la quadra per non togliere niente alla famiglia e continuare a coltivare la passione, che porterò avanti fin che campo: la moto ti entra dentro e difficilmente se ne può fare a meno.

- Presto diventerà padre, come coniugare appunto famiglia e sport? E poi questo sport.

Ringrazio mia mamma che quando ero adolescente ed ho perso il babbo, non mi ha imposto di allontanarmi dalla moto. Non mi ha forzato, mi ha detto: allenati, in sicurezza. Costringere le persone non dà mai risultati. Devo a lei tanto e anche a mia moglie Caterina, grazie a loro ho avuto la possibilità avverare il sogno Dakar, che è un affare di famiglia. Il mio team è la famiglia. Se non ci fossero intorno persone che ti amano e ti concedono di allenarti, con sveglia alle 5 per la bici, poi il lavoro, il fisioterapia, le uscite in moto, sarebbero impossibili certe prestazioni. Nel mio caso le donne di casa sono state determinanti.

- Per sua mamma Elena è stata dura, durissima. Venti anni fa perse Fabrizio, nel 2021 se ne è andata giovanissima Chiara.

Dietro a mio babbo c’era una grande donna. Mia mamma. Nostra mamma.

- Chiara è un’altra stella in cielo per voi.

Chiara ha perso il babbo che non aveva ancora due anni. In me, più grande, ha visto una figura paterna. Pur avendo interessi diversi e 11 anni di differenza, le ho raccontato Fabrizio, le ho fatto conoscere le sue imprese e come era. Era interessata a capire ed anche mia sorella era molto competitiva: nel mondo della scuola avrebbe fatto carriera in ambito umanistico. Inutile dire che un pezzo di me, grande, grandissimo, se ne è andato insieme a lei. Ma è sempre vicina a noi e accanto a Fabrizio.

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