Arezzo
La tragedia all'Archivio di Stato
I due impiegati morti all'Archivio di Stato di Arezzo non sono “vittime del dovere” perché quella mattina del 20 settembre 2018 quando il gas argon li uccise non erano in missione come personale di polizia, e perché la loro mansione non li esponeva a “circostanze straordinarie” o a “particolari condizioni ambientali e operative” in termini di “rischi o fatiche”. E il fatto di essere scesi giù per le scale dopo che l'allarme antincendio, alle 7.40, era scattato inspiegabilmente, fu una loro iniziativa, generosa, ma che non rientrava nei loro compiti.
E' questo il succo, amaro, delle 9 pagine di motivazioni con cui il giudice del lavoro Giorgio Rispoli ha rigettato il ricorso delle vedove di Piero Bruni e Filippo Bagni, i due dipendenti statali asfissiati dal gas sul pianerottolo del vano tecnico, dove la bombola lasciò fuoriuscire l'argon killer per una serie di malefatte emerse durante le indagini.
L'iniziativa delle mogli dei due lavoratori tendeva al riconoscimento dei benefici legati alla condizione di vittime del dovere, disciplinati dalla legge 266 del 2005. Dopo che il Ministero dei beni culturali aveva respinto la domanda, anche il tribunale si è allineato su quella posizione, con argomentazioni di natura prettamente amministrativa. I legali delle vedove, gli avvocati Walter Renzetti e Andrea Bava, potrebbero appellarsi.
Suona come una beffa questo pronunciamento che nega i benefit, dopo gli onori riservati dallo Stato ai due lavoratori, decorati alla memoria con medaglia. Prima dell'estate arriverà la sentenza per dieci persone a giudizio per omicidio colposo, a vario titolo. Le parti civili hanno chiesto mezzo milione di risarcimento come provvisionale. Nel processo sono emersi dubbi seri su una catena di lacune, omissioni, imperizie: deciderà il giudice.
Di altra natura la questione arrivata davanti al giudice del lavoro. I legali delle vedove sostengono che per il riconoscimento dello status di vittime del dovere, non è necessario, come indica il testo di legge, “un rischio aggiuntivo e ulteriore rispetto a quello proprio dell'attività stessa”, è invece sufficiente che “l'evento dannoso si sia verificato nella vigilanza ad infrastrutture civili o militari”. Proprio come accadde, sostengono gli avvocati, all'interno del palazzo di piazza del Podestà, in cima a Corso Italia, sede dell'Archivio di Stato.
Ricorso infondato, conclude però il giudice dopo una complessa analisi della vicenda, alla luce della legge 266. Non basta, scrive Rispoli, avere mansioni di custodia e sorveglianza, la norma prevede che “l'attività di vigilanza sia correlata ad una pericolosità immanente, in ragione della quale è inserita tra quelle elencate dalla norma in esame”. E poco importa se l'incidente fu così subdolo, silenzioso, terribile (e presto sapremo se anche per colpa di qualcuno). Non c'era “una esposizione diretta e strutturale a situazioni di rischio eccezionale o qualificato”. Punto.
La sentenza cita anche il fatto che nel luogo di lavoro un manuale affisso come vademecum di comportamento per i dipendenti, “prevedeva il controllo manuale della centralina di allarme (per spegnere la sirena) e l'allerta del personale specializzato”: vigili del fuoco in presenza in incendio, segnalazione all'impresa appaltatrice della manutenzione in caso di falso allarme. La conclusione è che “in base alla legislazione vigente non è possibile riconoscere ai dipendenti pubblici non appartenenti al comparto di sicurezza, difesa e soccorso pubblico, i benefici riconosciuti a soggetti equiparati alle vittime del dovere”.
E ancora: “Ai dipendenti cui è affidato il compito di controllare il corretto funzionamento del sistema antincendio non è affatto attribuito un compito che li sottoponga a particolari fatiche o stress o che li esponga a un rischio particolarmente grave”. Anche se, all'Archivio di Stato di Arezzo, dietro alla apparente calma di un luogo di cultura, di studio, di testi antichi, c'era una silenziosa bomba a orologeria che uccise due volenterosi, impareggiabili impiegati.
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