Il contributo
La redazione de La Nazione di Arezzo anni '90
La premessa è che io stavo dall'altra parte. E che lo sono rimasto per tutta la mia vita professionale, ormai quarantennale o giù di lì, approdata dopo la pensione al Corriere Fiorentino, edizione toscana del Corriere della Sera. Lo dico nel senso che nell'aprile 1985, quando nacque l'allora Corriere Aretino, poi Gazzetta di Arezzo e ora Corriere di Arezzo, io ero un giovane collaboratore, aspirante giornalista, della redazione aretina de La Nazione, ossia del giornale al quale il nuovo arrivato voleva togliere il monopolio dell'informazione in città e in provincia. Un monopolio che durava dal 1966, quando aveva chiuso i battenti l'ultimo concorrente, il Giornale del Mattino, e che era stato soltanto scalfito dalla nascita di Tv e radio private, a cominciare da Teletruria e Teleonda, cui il Corriere abbondantemente attinse per rinforzare i propri organici di partenza.
Bene, ma come fu vissuta la nascita del nuovo quotidiano appunto dall'altra parte? Direi come uno stimolo per tutti noi, vecchi e giovani, guidati da un antico e saggio padre del giornalismo come Giuseppe Dragoni, capo della redazione de La Nazione addirittura dal 1960, affiancato dai coetanei Carlo Dissennati e Giuseppe Aratoli oltre che dai più giovani Mario D'Ascoli e Piero Scortecci, ma soprattutto come una grande occasione per noi ragazzi di bottega, poco più che ventenni, desiderosi di un posto al sole. Non dobbiamo mai dimenticarci la realtà dell'informazione locale dell'epoca: tre soli giornalisti professionisti, Dragoni, che era stato il primo e a lungo l'unico, Dissennati e D'Ascoli senior, più un plotoncino di pubblicisti che lavoravano nelle Tv e nelle radio. Una differenza abissale con la stampa aretina di adesso, nella quale i professionisti non si contano nemmeno più e quanti vivono comunque di giornalismo sono alcune decine.
In questo panorama un po' anonimo, l'arrivo del Corriere Aretino fu come un sasso lanciato nello stagno. Da tempo La Nazione aveva avviato una propria rivoluzione interna, che grazie alle nuove tecnologie informatiche trasferiva nelle redazioni periferiche buona parte del lavoro svolto precedentemente nell'ufficio province di Firenze. Era nato anche un secondo fascicolo interamente dedicato alle cronache locali, ma nel quale solo tre pagine erano riservate ad Arezzo: una sulla città, una sulla provincia e una di sport. I redattori, intanto, erano rimasti i soliti tre di cui sopra. La notizia che cominciava le pubblicazioni un secondo quotidiano ebbe l'effetto di indurre i vertici fiorentini del giornale a reagire con forza. La prima conseguenza fu l'aumento di foliazione, una quarta pagina aretina (poi sarebbero diventate cinque e sei di “lenzuolo”, seguite da un tabloid di venti pagine), la seconda l'invio di una task-force da Firenze per fronteggiare nell'immediato la nuova concorrenza.
C'erano antichi cronisti come Raffaele Giberti e l'inviato di punta Maurizio Naldini, oltre che giovani rampanti quali Alessandro Fiesoli, Riccardo Jannello e più tardi, Amadore Agostini. Qualcuno di loro era un mattacchione che saltava sui tavoli, in redazione: oltre a lavorare al massimo per tenere il passo, si rideva a crepapelle, in un clima di goliardia ormai perso nei giornali di oggi. Dragoni da quel saggio conoscitore di uomini che era, anche come straordinario giocatore di poker, osservava tutto con il suo carattere scettico, tenendo a bada noi ragazzi di bottega con sano cinismo: “Abbiate la pazienza di resistere qualche mese, i fiorentini se ne torneranno in redazione centrale e al loro posto toccherà a voi essere presi”. Come infatti accadde.
A questo punto si impone raccontare chi eravamo noi, i ragazzi di bottega, che stavano in redazione per un tozzo di pane e una speranza, quella di essere assunti. Eravamo tutti più o meno coetanei: io, che avevo cominciato a scrivere nel 1979, ultimo anno di liceo, e che stavo completando la mia tesi sulle origini del fascismo ad Arezzo per laurearmi, Sergio Rossi, che fu il primo ad essere assunto, Aurelio Marcantoni, poi mancato prematuramente a poco più di 40 anni, che veniva dalle Tv, Alberto Pierini, mio compagno di studi a scienze politiche di Firenze, Silvia Bardi, l'unica donna di un mestiere ancora prettamente maschilista, e Fausto Sarrini, conoscitore enciclopedico di ogni sport, terzo nella gerarchia di chi scriveva di Arezzo, inteso come squadra di calcio, dopo Mario D'Ascoli, che era già inviato anche per le partite di serie A, e Beppe Aratoli. Nessuno di noi, credo, pensava che avrebbe fatto il giornalista in una città di provincia: ci pareva una scommessa impossibile. Tutti aspiravamo a impadronirci dei rudimenti della professione per poi sfruttarli altrove.
La nascita del Corriere e il conseguente ampliamento degli organici, frutto anche del periodo d'oro, gli anni '80, della stampa italiana, ci aprirono una strada che prima ci pareva sbarrata: fare i “veri” giornalisti nella nostra città.
Dei colleghi dell'altra testata conoscevo bene, per altri motivi, Romano Salvi, che ben presto avrebbe assunto la guida della redazione del Corriere. L'amicizia con lui mi aveva consentito di seguire da lontano i primi vagiti di un secondo quotidiano aretino. Ben presto avrei preso dimestichezza anche con Ivo Brocchi, un altro saggio, Carlo Gabellini, Luigi Alberti, che aveva cominciato alla Nazione come corrispondente da Monterchi e che sarebbe diventato un bravissimo organizzatore delle pagine sportive degli “altri”, Laura Pugliesi, presentatami da Romano quando ancora era la prima conduttrice donna di Teletruria, sulla cui tolda di comando sedeva Gianfranco Duranti. Il primo dirimpettaio professionale fu per me, che allora seguivo la politica, il giovane Riccardo Regi. Concorrenti sì ma sempre con lealtà, senza colpi bassi, a caccia di notizie per darci “buchi” reciproci.
Più tardi, quando dalla politica, dopo la morte di Aurelio Marcantoni nel 2002, mi allargai a nera e giudiziaria, avrei trovato uno stimolante avversario in Luca Serafini, un mastino per battere il quale bisognava correre parecchio. Con l'altro nerista di lungo corso, Mauro Bellachioma, era tutto un gioco di telefonate e battute: “Ma domani che buco mi dai? E tu, invece?”.
Ecco, ho cercato di riassumere quarant'anni in poche righe, un'intera vita professionale “dall'altra parte”, ma sempre con rispetto. Potrei dire dei tanti giovani che sono passati dalla redazione de La Nazione per poi approdare altrove, come Monica Peruzzi, ora a Sky, o Barbara Perissi, a Teletruria e Ansa, e Giacomo Gambassi, inviato di Avvenire. Potrei dire di quelli che hanno fatto il percorso inverso, come Lucia Bigozzi e di quanti ci hanno sostituito, come Federico D'Ascoli, figlio di Mario. Ci sarebbero tanti aneddoti da raccontare, ma ci vorrebbe un libro. È una storia lunga una vita, la nostra storia.
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