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Il sogno

Carlo Ancelotti, il brasiliano con il passaporto sbagliato. Il tecnico emiliano carioca dentro, da João Gilberto alla picanha

Giuseppe Silvestri

12 Maggio 2025, 17:50

Carlo Ancelotti

Carlo Ancelotti nuovo allenatore del Brasile

Carlo Ancelotti è l’unico uomo sulla faccia della terra capace di passare da una feijoada al 4-3-2-1 senza perdere la calma. Il suo spirito? Più carioca che romagnolo. Se non lo conoscessimo già per le sopracciglia immobili e la saggezza extra emiliana, potremmo pensare che sia nato a Copacabana invece che a Reggiolo. C’è qualcosa di profondamente brasiliano in quest’uomo che finalmente corona il suo sogno a arriva alla guida della nazionale verdeoro. Non è solo la scioltezza con cui gestisce gli ego o la serenità con cui schiva la nevrosi europea del “sistema gioco”. È una questione di anima.

Ancelotti non ha mai cercato di scimmiottare il calcio brasiliano. L’ha respirato, interiorizzato, e lo ha usato come uno strumento di equilibrio. Mentre il calcio europeo costruiva palazzi di dati e algoritmi, lui si fermava ad ascoltare João Gilberto negli spogliatoi — lasciando ai suoi brasiliani la colonna sonora. Non per moda, ma per rispetto. Perché sapeva che in quella musica c’era qualcosa che il suo mestiere non poteva insegnare: leggerezza.

E poi c’è la cucina. Quando Ancelotti ti dice che la picanha è meglio del roast-beef di Capello, non sta scherzando. Lo dice con quella diplomazia da nonno che sa che le guerre si vincono attorno a un tavolo, non in conferenza stampa. Le sue cene con i giocatori brasiliani, lontano dai riflettori, sono diventate piccoli atti politici. Lì si costruiva la fiducia. Lì si cementavano i titoli.

Ancelotti non è un turista spirituale della brasilianità. È un alchimista silenzioso, che ha saputo fondere due culture calcisticamente agli antipodi. Da un lato la disciplina tattica italiana, dall’altro l’istinto creativo sudamericano. Non ha mai cercato di incasellare i brasiliani dentro un modulo: li ha accolti, capiti, lasciati essere. E loro lo hanno ricambiato con qualcosa che nessun altro tecnico europeo ha mai ricevuto: affetto sincero.

Lucas Silva, Alex, Marcelo, Kaká… Tutti lo trattano non come un boss, ma come uno zio paziente. Uno che non giudica. Uno che, se sbagli, non ti uccide con lo sguardo, ma ti offre un caffè e ti dice: “Domani è un altro giorno, ragazzo". Quando Ancelotti mette piede a Salvador o a Rio, non fa foto con il Cristo Redentore. Guarda la gente, osserva le mani, ascolta i silenzi. Ha più volte confessato di sentirsi attratto da quella spiritualità laica, fatta di superstizione, gioia improvvisa e accettazione della sconfitta. È quella filosofia – mezza pagana, mezza lirica – che ha cercato di portare anche in spogliatoi dove tutto era diventato freddo, chirurgico, ossessionato dal risultato.

Nel calcio moderno, chi non urla è debole. Ma Ancelotti per lo più sorride. E in quel sorriso c’è più autorità che in cento lavagne tattiche. Proprio come i grandi maestri brasiliani, lui comanda senza opprimere. Ti guida e poi si fa da parte. Fa quello che in Brasile chiamano malandragem buona: l’arte di stare al mondo con astuzia, senza violenza. Un modo di fare che tra l'altro è un bel po' diverso da quello che adottava quando in campo ci andava con le scarpette chiodate e di certo non mollava le caviglie degli avversari, correndo per 90 minuti come un indiavolato (e il termine non è casuale).

Quando si è vociferato che potesse diventare ct del Brasile, l’idea ha fatto storcere il naso a molti. “Un italiano? Al Brasile?”. Eppure, a ben guardare, non esiste tecnico europeo che abbia un'anima più brasiliana. Per come vive il calcio. Per come vive la vita. Per come capisce che, in fondo, un passaggio di trivela vale più di mille powerpoint. Carlo Ancelotti non è solo un grande allenatore. È un ponte culturale con il sole addosso. Un uomo che parla con voce bassa, ma che il Brasile ha già adottato senza alcun bisogno di un visto.

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