Il campione
Gigi Riva durante la consegna della cittadinanza onoraria da parte del Comune di Cagliari
Non faceva rumore, Gigi Riva. Neanche quando segnava. Neanche quando faceva tremare le reti e le difese del mondo. E non ha fatto rumore nemmeno nel momento dell’addio. Ricoverato d’urgenza per un infarto al Brotzu, l’ospedale di Cagliari, la città che non ha mai voluto abbandonare, ha lottato in silenzio, come ha sempre fatto. Ma il cuore, il cuore enorme di Gigi, non ce l’ha fatta. È morto il 22 gennaio 2024, nel pomeriggio. Senza clamori. Senza cerimonie. Proprio come aveva vissuto.
Gigi Riva (a destra) insieme a Fabio Capello con la maglia della nazionale
L’Italia perse così il suo eroe più silenzioso. Gigi Riva era più di un campione. Era un’idea. Quella che non si tradisce la terra che hai scelto, anche quando ti cercano la Juventus, il Milan, l’Inter. Quella che i soldi non valgono più del rispetto. Che la maglia si ama davvero, se te la cuci addosso. Riva si era scelto la Sardegna. Non per caso. Per amore. Aveva portato lo scudetto a Cagliari nel 1970, ed era rimasto lì anche dopo, quando poteva volare via ovunque. Lui, il più grande bomber della Nazionale italiana, 35 gol in 42 presenze. Ma anche l’unico capace di scappare dalla fama. Di vivere in una casa semplice, senza mai farsi fotografare per finta.
Se ne andò l’ultimo che non si era mai venduto. Riva non amava parlare, ma lo facevano per lui gli occhi. E le scelte. Quando è stato chiamato dalla Nazionale per fare da padre ai nuovi azzurri, ha accettato. È stato con loro per vent’anni, senza un titolo, senza pretese. Lo chiamavano “Gigi”, non “dottore”. Lo rispettavano tutti. Era lì nel 2006, quando Cannavaro alzava la Coppa del Mondo a Berlino. Ma Riva non ha mai cercato la telecamera. La sua missione era proteggere, ascoltare, esserci. E poi sparire dietro le quinte. Come fanno gli uomini veri.
Gigi Riva insieme a Roberto Baggio, due dei più grandi giocatori della storia del calcio
La morte di Gigi Riva resta una lezione. Anche ora. Ci sono campioni che vivono per apparire. E poi c’era lui. Che viveva per essere. Per essere coerente. Per essere fedele. Per essere un esempio. Perfino morendo, ha insegnato qualcosa: non servono grandi discorsi per lasciare un enorme vuoto. E' già passato un anno e mezzo. Eppure sembra ieri. In un calcio sempre più senza poesia, senza sentimenti, fatto solo di banconote, lustrini e storie virali, personaggi come lui mancano. "Sono solo altri tempi", ripete spesso chi uno così non lo ha mai visto giocare o magari sa poco del calcio che fu. Quello in cui le partite iniziavano tutte alla stessa ora e dovevi stare con un orecchio attaccato ad una radiolina che gracchiava per conoscere il risultato della tua squadra del cuore. Sì, è vero, è un'altra era e non c'è cosa peggiore che dire - tanto più scrivere - "ai nostri tempi...". Una frase sciocca, che in passato intere generazioni hanno sempre contestato. Il dispiacere non è per i tempi andati e mai più recuperabili. E' per i tanti che non li hanno vissuti. Li avrebbero meritati.
Il sorriso silenzioso del bomber immortale
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