L'intervista
Claudio Repek e la copertina del libro
Arriva nelle librerie Disonora il padre e la madre, primo romanzo noir di Claudio Repek, edito da Albatros. L'omicidio di una bambina, l'indagine, ma un universo di personaggi intorno tutti da scoprire e investigare, con sensibilità.
Acuto osservatore e narratore dei fatti di attualità, autore di pubblicazioni sul passato di Arezzo e del suo territorio, tra aziende storiche, lotte e conquiste, curatore di uffici stampa dai quali escono comunicati mai banali, con un'anima.
- Un giornalista e saggista specializzato in temi di politica, società, sindacato, scrive un romanzo giallo. Com'è nata?
Dalla voglia di divertirmi. Quello di giornalista è il mio unico e amato lavoro. L'ha fatto e continuo a farlo, anche quando scrivo saggi, nel modo che mi hanno insegnato negli anni Settanta: raccontare le notizie e le storie nel modo più aderente possibile alla verità, senza commenti e senza valutazioni personali. Questo metodo esclude la fantasia che quindi ho finora tenuta diligentemente nel cassetto. Dopo 48 anni di professione, ho voluto provare se ero capace di usarla. Un tentativo. Vedremo come va.
- Tutto lasciava supporre in Repek un certo distacco da casi di nera, talk che spaccano in quattro il capello di vicende noir. Invece…
Non ho mai saputo fare né la nera né la giudiziaria. Grandissimo rispetto per i colleghi del settore ma non è mai stato pane per me. Se forse ho imparato a fare una cosa, questa è raccontare le persone e le loro storie. Centinaia in molti anni. Tasselli di un mosaico che ho lanciato in aria e che poi ho ripreso mischiando i pezzi e creando un'immagine nuova. Serviva un collante e l'unico a me accessibile era il noir. Con un approccio che penso lontano dai talk che oggi si affollano in televisione: in questo libro non si va a caccia di indizi ma dell'anima e delle storie dei personaggi.
- Un magistrato, il suo personaggio, molto particolare. Chi è Massimiliano Andrei?
Un uomo pieno di contraddizioni, ben lontano dalla retorica dell'uomo di legge inflessibile e giusto in ogni occasione. Vicende cupe alle spalle, rancori sotto la cenere, senso dell'ironia e rispetto delle persone. Aggiungere altro sarebbe spoiler.
- Il contesto nel quale si muove la storia quanto riprende da Arezzo reale?
Nulla. È un gioco di immaginazione che lascio ai lettori. L'esperienza ha prodotto segni nella mia memoria e tra i tasselli del mosaico lanciati in aria ce ne sono sicuramente molti ai quali può essere applicata un'etichetta. Un elemento reale c'è comunque davvero: il cavatappi a forma di birra citato nel libro, è a casa mia.
- La verità sembra sfuggire alla giustizia sui grandi casi che diventano show televisivo e social. Che idea si è fatto?
Che l'informazione è cambiata e non so se in meglio. La nera è sempre stata una locomotiva di questo lavoro ma la sua spettacolarizzazione televisiva è ben lontana dal mio modo di sentire e dalla mia cultura professionale. Ingenuamente penso che ognuno debba fare il suo mestiere e lo debba fare nel luogo deputato: quindi la giustizia si fa in tribunale e non in televisione. L'informazione è ovviamente fondamentale. Il giornalismo investigativo è un pilastro della democrazia. I talk show con persone che litigano non mi entusiasmano. Ma io sono ormai vecchio e fuori dalla storia, perlomeno da questa.
- Lei che racconta da decenni le vicende della politica aretina, come definisce quella di fine 2025?
Una politica stanca, priva di entusiasmo, in grandissima difficoltà a motivare le persone, soprattutto i giovani. Impossibilitata a definire strategie almeno di medio periodo. Ho un grandissimo rispetto per chi oggi fa politica. Per quasi 20 anni ho partecipato alle riunioni di Giunta del Comune di Arezzo: conosco le amarezze, le disillusioni, la fatica e talvolta le umiliazioni di politici e amministratori pubblici. Pieno rispetto, quindi per il loro lavoro e per il coraggio che hanno nel farlo. Detto questo, la politica di oggi, in Italia e nel mondo, è roba da guerrieri. Non contano lo studio, le analisi, i confronti, i pensieri divergenti. Conta attaccare e distruggere l'avversario nella patetica illusione di avere la verità in tasca e nella suicidiaria idea che si possa rinunciare al contributo degli altri. La cosiddetta globalizzazione non lascia zone illuminate: Arezzo è parte dell'Italia e del mondo. Forse un po' più fortunata ma il peggio può ancora arrivare. O forse no: vedremo.
- Lei ha scritto Ombre rosse, sull'evoluzione politica e amministrativa ad Arezzo negli ultimi 40 anni, con la sinistra da essere pilastro a ruolo marginale, cosa prevede per le prossime elezioni? Non un pronostico, che non si sa nemmeno chi scende in campo, ma la lettura dell'attuale situazione.
Una valutazione personale che mi sono permesso di fare è che oggi in politica non vince nessuno. Si tratta solo di vedere chi perde. E chi perde lo fa spesso per colpa sua e raramente per merito dei suoi avversari. A livello nazionale sento poche voci sul fatto che siamo ormai al 40% dei votanti. Conta solo chi vince e chi perde. Ironia della sorte e danno per la democrazia, una coalizione può vincere quindi con il 21% degli aventi diritto e il leader del partito più forte di questa coalizione può avere l'ambizione di governare da solo con poco più del 10% del consenso dei cittadini. Democrazia? Non lo so. Spero che la prossima campagna elettorale ad Arezzo veda tutti scegliere una priorità: riportare le persone al voto. Poi ognuno provi a convincerci che ha in mente un serio progetto per il futuro della città che mi sembra una realtà stanca, economicamente in affanno, socialmente esposta. E il progetto non può fare a meno di un rinnovamento generazionale. Noi vecchi stiamo dominando il mondo. Tornando al mio mestiere, non è una bella notizia.
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