Il caso
Uva dall'India in un supermercato italiano
Mentre passeggiate tra gli scaffali lucidi del supermercato di fiducia, vi capita l’occhio su una bella confezione d’uva. Fresca, lucente, invitante. Poi, con un gesto distratto, girate l’etichetta e leggete: origine India. No, non è uno scherzo. È il paradosso made in Italy: l’Italia, uno dei maggiori produttori mondiali di uva da tavola, importa frutta dall’altra parte del pianeta. Per poi rivenderla, ovviamente, come se fosse normale. Sui social è scoppiata — giustamente — l’indignazione. Foto, video e reel stanno rimbalzando da giorni su TikTok, Instagram e Facebook. Consumatori allibiti mostrano i banchi frigo di grandi catene con frutta esotica a pochi giorni dalla raccolta nostrana. "Ma come è possibile?", si domandano in tanti. La risposta, purtroppo, è una miscela tossica di miopia politica, logiche di profitto spietato e disinteresse per il nostro patrimonio agricolo.
L'Italia è il secondo produttore europeo di uva da tavola (dopo la Spagna) e tra i primi cinque al mondo. Nel 2023, il nostro paese ha prodotto oltre un milione di tonnellate di uva da tavola, concentrata principalmente in Puglia e Sicilia, regioni dove intere economie locali ruotano attorno alla viticoltura. Ma nonostante questo primato, i supermercati italiani riempiono i propri scaffali con uva che ha attraversato più di 6.000 chilometri, inquinando mari e cieli, per finire sui nostri piatti. Un insulto non solo al buonsenso, ma anche agli agricoltori italiani, che per poter competere devono vendere a prezzi sempre più ridotti, schiacciati da una filiera che premia la logica del meno costa, meglio è.
Comprare uva indiana in Italia è come importare neve in Alaska o sabbia nel Sahara. È il trionfo del non-sense economico e ambientale. Perché, sia chiaro, non si tratta solo di una questione patriottica: è una questione di sostenibilità ambientale, tutela dell’agricoltura locale e rispetto per i lavoratori. Ogni grappolo d’uva indiano rappresenta un colpo basso agli agricoltori italiani che, tra caro gasolio, siccità e burocrazia, faticano a sopravvivere. Eppure, per qualche centesimo in meno a chilo, le grandi catene preferiscono bypassare l’Italia e andare a fare shopping in Asia. Il risultato? Nei mercati rionali l’uva locale rischia di marcire, mentre nei reparti ortofrutta dei supermercati si spaccia globalizzazione per progresso.
Sui social, il popolo italiano ha detto basta. Migliaia di post denunciano. C’è chi mostra lo scontrino con la dicitura "origine India" e chi paragona il trattamento riservato all’agricoltura italiana con quello di una colonia sfruttata. Le immagini parlano da sole: grappoli perfetti, sì, ma col sapore amaro dell’ingiustizia. L’indignazione, però, non basta. Serve una presa di posizione chiara: dai consumatori, che possono boicottare consapevolmente i prodotti extra-UE, e soprattutto dalle istituzioni, che dovrebbero difendere il Made in Italy non solo a parole, ma nei fatti. Se continuiamo a trattare il nostro settore agricolo come un soprammobile da esibire solo nelle fiere internazionali, tra qualche anno non ci sarà più nulla da difendere. Mangeremo uva indiana, fragole egiziane, pomodori marocchini — e poi, magari, importeremo anche la nostra dignità. Vogliamo davvero questo nel nostro piatto?
*Iscrivendoti alla newsletter dichiari di aver letto e accettato le nostre Privacy Policy