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L'inchiesta

Frutta biologica, il grande inganno dell’altro mondo: quando fragole e banane inquinano più del Suv

Giuseppe Silvestri

19 Maggio 2025, 10:47

Frutta bio inganno

Frutta 100% bio, ma siamo siamo sicuri che sia la scelta giusta per l'ambiente?

Frutta biologica ma soltanto in teoria. Ci siamo già occupati del paradosso italiano: il Paese ha perso l'autosufficienza alimentare in ortofrutta. Le importazioni hanno superato le esportazioni. Prodotti che arrivano nei supermercati fuori stagione e con prezzi più bassi, quindi convenienti per le grandi catene. Ma c'è un altro aspetto che spinge il consumatore a "pescare" nella cassettina della frutta straniera: l'etichetta bio. Si compra nella convinzione che il prodotto sia davvero biologico, quando di biologico ha solo il nome. Le fragole del Perù, le mele dall’Argentina e gli avocado dal Kenya arrivano ogni giorno sugli scaffali dei supermercati europei con il bollino bio ben in vista. Il messaggio implicito è chiaro: acquistare questi prodotti fa bene alla salute, rispetta l’ambiente e sostiene un’agricoltura sostenibile. Ma a ben guardare, la realtà è tutt’altra: dietro quella certificazione verde spesso si nasconde un sistema che, per impatto ambientale complessivo, spesso fa rimpiangere i prodotti convenzionali coltivati sotto casa.

Biologico sì, ma a che prezzo ambientale? Il biologico, per definizione, si fonda sul rispetto dell’ambiente: niente pesticidi chimici, rotazioni colturali, conservazione della biodiversità. Ma quando il trasporto della frutta bio avviene su migliaia di chilometri, in container refrigerati, camion diesel o peggio ancora in aereo, l’equazione cambia completamente. Un chilogrammo di asparagi coltivati in modo biologico in Perù e spediti in Europa in aereo genera fino a 13,9 kg di CO₂: l’equivalente di guidare un suv per oltre 50 km. L’asparago coltivato in modo convenzionale, ma localmente, può emettere anche 10 volte meno gas serraLa certificazione fasulla. Ecco il problema centrale: le certificazioni biologiche si fermano al cancello della fattoria. Non tengono conto del trasporto, dello stoccaggio, del packaging e del consumo energetico per la conservazione nei centri logistici e per i trasporti. Il risultato è paradossale: un mango bio dell’Ecuador arriva in Europa via nave container (o peggio ancora via aereo in alcuni casi di alta deperibilità) e ottiene la stessa certificazione di una mela biologica coltivata a pochi chilometri dal supermercato. La CO₂ emessa? Non pervenuta.


Quanto inquina la frutta bio che viaggia in aereo?

Le multinazionali del biologico — perché sì, esistono — sfruttano il marchio bio come leva di vendita. L’estetica è impeccabile: confezioni verdi, parole come etico, naturale, a basso impatto. Ma è un’operazione di greenwashing di massa, utile a fidelizzare il consumatore medio, che compra bio convinto di fare del bene al pianeta. Il consumatore, da parte sua, raramente si informa sulla stagionalità, sull’origine geografica o sul ciclo di vita del prodotto. Pretende fragole a dicembre, mango a febbraio e avocado ogni giorno, purché biologici. È l’illusione del consumo etico, che funziona solo in superficie e che traduce una coscienza ambientale in un alibi da supermercato.

Il biologico, in sé, resta un obiettivo valido e importante. Ma non può più essere disgiunto dal concetto di prossimità, di vicinanza. Un’agricoltura per essere realmente sostenibile deve essere locale, stagionale e integrata nel territorio. Continuare a spacciare come virtuoso un sistema che spedisce banane bio dal Costa Rica agli scaffali di Roma e Milano significa accettare una visione miope, quasi cinica, della sostenibilità. Il biologico importato da migliaia di chilometri è il cavallo di Troia dell’ipocrisia ecologica. Il suo impatto reale è nascosto dietro una foglia di fico fatta di etichette e certificazioni parziali.
La domanda che dovremmo porci non è “Questo prodotto è biologico?”, ma: “Da dove arriva e quanto ha inquinato per essere qui?”. Fino a quando il consumatore continuerà a ignorare la provenienza e il ciclo di vita dei suoi acquisti, il “bio aereo” continuerà a volare — letteralmente — sopra le nostre teste, ben lontano da una vera sostenibilità.

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