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Castiglion Fiorentino

Antica Maestà della Val di Chio restaurata da un cittadino a sue spese

Giuseppe Alpini *

30 Maggio 2025, 00:35

Antica Maestà della Val di Chio restaurata da un cittadino a sue spese

La Val di Chio nel comune di Castiglion Fiorentino è nota per i suoi scenari paesaggistici dalla grande potenza emotiva, ma ai più sfugge che questo territorio conserva, come in uno scrigno, testimonianze concrete della cultura contadina che ha plasmato per secoli i suoi abitanti della quale rimangono numerosi attestati riguardanti soprattutto l'ambito religioso.

Qui, come altrove infatti, la religiosità della gente dei campi aveva due modi per esprimersi: uno più rigorosamente di carattere liturgico connesso alle attività della Cura; l'altro, più autonomo, si concretizzava in iniziative più spontanee e meno inclini alla mediazione del Curato.

Tuttavia, in questo secondo caso, si trattava di una spontaneità apparente in quanto la maggior parte delle espressioni di questa religiosità faceva perno su persistenti sedimentazioni di pratiche religiose ereditate dai popoli precristiani che avevano vissuto in questo territorio quando il tempo nel mondo agricolo era scandito da tutta una serie di riti propiziatori finalizzati ad ottenere la benevolenza divina sui raccolti, sul bestiame, sulla famiglia colonica.

Per questo motivo le autorità ecclesiastiche cristiane, dopo essersi rese conto dell'impotenza dei loro sforzi per sradicare questi riti, ritennero opportuno sostituire non loca, rogationes et sacrificia, bensì i soggetti ai quali indirizzare la devozione popolare.

Da qui la grande diffusione del culto della Vergine sotto le sue molteplici denominazioni e quello dei Santi in particolar modo a quelli più legati al mondo agricolo come Sant'Antonio Abate noto protettore degli animali.

Questa scelta diede motivo alla conservazione di precedenti manufatti o alla erezione di nuovi che presero il nome di edicole, di pilastri, di nicchie, di maestà che il passeggero non frettoloso o motorizzato può ancora notare lungo le strade, agli incroci, sulla porta d'ingresso di molte abitazioni.

Si trattò di un'imponente opera di sacralizzazione del territorio che, in tempi di estrema precarietà anche alimentare, andava posto sotto la protezione divina attraverso luoghi di preghiera diversi dalla chiesa parrocchiale.

Questi manufatti, essendo stati edificati al di fuori della chiesa ufficiale e, perciò non citati nei resoconti relativi alle visite pastorali, sono privi di paternità e non sappiamo se sia stato un singolo o una comunità a costruirli.

Certo è che, però, di fronte all'immagine che si trovava all'interno, generazioni dopo generazioni di valligiani hanno sostato, hanno pregato in gruppo o in solitudine, vi si sono recati in processione, hanno elevato invocazioni, hanno trovato risposte, vi hanno riposto speranze, ma vi hanno anche mantenuto fiori freschi, acceso lumini e tenuto in ordine lo spazio circostante.

Ecco perché questi manufatti la cui maggior parte sono in stato di completo abbandono, a nostro parere, non sono meno importanti, ai fini della conoscenza di un territorio e della sua gente, di una statuetta etrusca o delle fondamenta di una villa romana.

Alcuni di questi muti testimoni di una civiltà che non c'è più infatti hanno svolto, oltre quella di punto di riferimento religioso, molteplici funzioni e in questo senso un ruolo importantissimo è stato effettuato dalle Maestà che normalmente erano collocate lungo le strade più frequentate da chi veniva da lontano o ai combarbi, agli incroci.

Interessante è la motivazione che ha spinto gli uomini a collocare le Maestà preferibilmente ai combarbi. Questi luoghi hanno sempre esercitato sul passante un fascino ricco di valenze negative il quale, trovandosi dinanzi alla possibilità di scegliere qualsiasi direzione è stato colpito come da un senso di vertigine di fronte a tanta libertà, perché preso dal timore di fare la scelta sbagliata, di non imboccare la direzione giusta.

La consapevolezza di questo stato psicologico aveva indotto già gli antichi popoli mediterranei a collocare la dea Ecate, dea delle strade, a protezione di questi luoghi ritenuti pericolosi. Si trattava di una dea legata al mondo degli Inferi che veniva rappresentata come una donna con tre teste, una per ogni direzione e a questa venivano recate offerte.

Questo timore, anche in tempi a noi vicini, veniva alimentato soprattutto durante le veglie durante le quali capitava spesso far cadere il discorso sul fatto che al combarbio ci si vede.

Non era ben definito ciò che ci si potesse vedere o in chi ci si potesse imbattere, ma c'era sempre qualcuno che narrava di avervi ballato con una bellissima donna e che soltanto al chiaror dell'alba si era accorto che costei aveva piedi e gambe caprine, oppure che era stato aggredito da un cane nero che era scomparso al semplice segno della croce.

Per non cadere nel pericolo occorreva avvicinarsi cautamente all'incrocio e attraversarlo velocissimamente senza far rumore e senza voltarsi indietro.

Sulla base di queste credenze le Maestà hanno sostituito in forma protettiva la dea Ecate, ma vi hanno anche svolto il compito di “segnale stradale” poiché il viandante o il pellegrino, una volta giunto qui, era certo di essere in “terra di cristiani” e di essere in prossimità di una chiesa o, meglio ancora di un hospitale e nella peggiore delle ipotesi poteva trascorrere la notte all'interno della maestà stessa.

Un tempo, infatti, viaggiare di notte senza neppure il lume della luna era angosciante, perché non si vedeva dove mettere i piedi, non si udiva voce di umani e, di conseguenza, non si poteva non avvertire un senso di abbandono e di solitudine che faceva pari con il senso di smarrimento, mentre la razionalità cedeva lentamente il passo alla paura e alla convinzione che la fine fosse vicina. Solo le preghiere tenevano in piedi la speranza di trovare una Maestà dove trascorrere la notte.

Quando questo viandante finalmente si imbatteva in questo provvidenziale manufatto anzitutto rendeva grazie a Dio prima di addormentarsi e lo ringraziava caldamente il mattino successivo prima di riprendere il cammino.

Di fronte all'immagine della Maestà si soffermavano anche i contadini che, dopo una dura giornata di fatica, non si sarebbero recati in chiesa per le “funzioni”, ma sostavano lì e raccomandavano il loro piccolo orizzonte alla Madonna recitando un'Ave Maria.

Il caotico turbinio della vita contemporanea oggi spinge sempre più gli uomini a dimenticare e, di conseguenza, a trascurare colpevolmente queste testimonianze tanto care ai nostri padri e certamente simboli significativi della nostra identità, ma esistono anche delle lodevoli eccezioni e si può verificare il ‘miracolo' che fa eccezione con l'indifferenza generale.

È accaduto, infatti che l'avvocato Aubrey M. Daniel III, ormai cittadino a pieno titolo della Val di Chio, anche se giunto da lontano, abbia colto in pieno il significato e la ricchezza culturale di cui è portatrice quella Maestà che ogni giorno ha modo di incontrare all'incrocio che conduce a Gaggioleto, dove vive.

Egli infatti, senza nulla chiedere, se non i necessari permessi, dopo aver superato incomprensibili ostacoli, a sue spese, ha riportato alla sua originaria condizione la Maestà che al tempo del Catasto Leopoldino del 1823 risultava al centro dell'incrocio, quasi una moderna rotatoria. Stranamente oggi la Maestà si trova ai margini dell'incrocio e, siccome non può essere scivolata via dalla posizione iniziale, non rimane che il dubbio: o si è ristretta la strada, oppure è cresciuto il campo confinante!

* Divulgatore di storia locale

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