2 agosto
Roberto Procelli e l'orologio alla stazione di Bologna
Roberto Procelli aveva 21 anni. L'esplosione alla stazione di Bologna lo investì mentre era accanto alla cabina telefonica a gettoni e stava per chiamare casa. Militare di leva, doveva avvisare babbo Rinaldo e mamma Elda: “Torno”. Ma quello era il 2 agosto 1980 che sarebbe diventato il giorno della strage alla stazione centrale di Bologna. Un sabato come quest'anno. Roberto a San Leo di Anghiari non ci tornò. Anche per lui le 10.25 rimaste pietrificate nell’orologio più tragico della storia, segnarono l’ora della morte. Quarantacinque anni fa: 85 vittime e 200 feriti.
Roberto aspettava il treno per Arezzo. Il babbo poi lo avrebbe atteso in auto come le altre volte e portato a San Leo. Roberto aveva una fidanzata, il diploma da ragioniere, la domanda di lavoro alla Motorizzazione, ma anche un posto promesso in un'azienda. Amava il calcio. Tutto cancellato. Morì falciato tra gli innocenti della feroce strategia della tensione, che avvelenava l’Italia. Mamma Elda, fin quando è vissuta, ha mantenuto nella casa di San Leo la camera intatta del suo unico figlio. L’orsacchiotto di quando era piccolo, i vestiti, la lampada che stava costruendo, i libri, le scarpette da calcio. Aggiunse sopra al baule la bandiera tricolore con cui era stato avvolto il feretro ai funerali.
Babbo Rinaldo, venuto a mancare nel 2003 ed Elda, scomparsa nel 2014, si sono spenti con il tarlo delle atroci domande irrisolte: “Perché? Chi ha voluto questo?” I processi hanno consegnato una verità giudiziaria che comprende nomi e cognomi di esecutori e di mandanti, emersi solo in tempi recenti. Tra coloro che mossero i fili della strage, anche Licio Gelli, dice la sentenza, arrivata quando il Venerabile della P2 che viveva a Villa Wanda, 25 chilometri da San Leo, era già defunto.
Il 2 agosto 1980 fu la data spartiacque di una vita irrimediabilmente sconvolta per la famiglia Procelli. Da emigrati in Svizzera, a Zurigo, si erano guadagnati con fatica un gruzzolo per tornare in Valtiberina, in provincia di Arezzo, dove proseguire con il lavoro nel tabacco. La casa. Il figlio da veder crescere, da far studiare in attesa che, fatto il servizio militare, si sistemasse. Poi lo strazio.
“Neanche i carabinieri avevano il coraggio di dirci cosa era successo”, raccontava mamma Elda Palazzeschi, all’anagrafe Ilda. “Furono i nostri parenti che ci avvicinarono. C'era stato qualcosa su a Bologna, dai servizi in tv ebbi un presentimento, dovevamo partire subito perché c'era bisogno di sangue per le trasfusioni. E andammo. Lì capimmo cosa era successo. E fu terribile. Roberto era già morto. Io e mio marito Rinaldo vivevamo per lui. Fino al 1973 abbiamo lavorato in Svizzera, in una fabbrica di motori, poi siamo tornati ad Anghiari. E quel giorno è andato tutto in frantumi.”
“Quel giorno ha stravolto la mia vita” ci disse ancora mamma Elda, cuore spezzato, minuta e piegata dal dolore, ma esempio di dignità e tenacia. “Senza Roberto si è svuotato tutto in un attimo”. Aggrappata alla fede e ai ricordi, Elda, ma senza riuscire a provare misericordia verso gli assassini. “Hanno fatto una cosa troppo grossa. Non meritano perdono né clemenza. Io non provo odio, ma non riesco a perdonare, mi rimetto al giudizio di Dio. Chi ha fatto del male deve pagare. Hanno distrutto le vite di tante persone e le vite di noi genitori. Vorrei tanto conoscerli...”
Mamma Elda dopo il 2 agosto 1980 non tornò più a Bologna, le avrebbe fatto troppo male. Non aveva la forza di partecipare a cerimonie e celebrazioni, anche se le faceva piacere che Roberto venisse ricordato. Al suo fianco i parenti, la gente del paese, il Comune. Il cagnolino Perla. Quando in televisione passavano certe immagini, spegneva. Ogni giorno la visita al piccolo cimitero dove una statua vicino alla tomba fa memoria del ragazzo, con un foro nella pietra che fa impressione. Un vuoto. I Procelli hanno consegnato ai nipoti, cugini di Roberto, il testimone della memoria e della verità. Sono loro, Walter e Giancarlo, a tenere vivo il ricordo. Oltre al campo sportivo e alla strada intitolati a Roberto Procelli, ogni anno con il Comune di Anghiari vengono organizzate cerimonie.
Il 2 agosto 2025, di sabato come allora, la messa al cimitero, alle 19, con il sindaco Alessandro Polcri. Alle 21, ad Anghiari, la proiezione di un documentario sul 21enne con immagini inedite, realizzato da Gianni Beretta e Nicolò Guelfi. La premiazione della borsa di studio. Poi il concerto: “Riccardo Marasco” di e con Silvio Trotta.
Walter e Giancarlo hanno parole di ammirazione per gli zii che hanno fronteggiato la disperazione e la sete di verità e giustizia, ora portata avanti da loro. “Fino all’ultimo hanno sperato che venissero svelati i mandanti, ma sono morti senza sapere. Zio Rinaldo, rendendosi conto che non sarebbe vissuto il tempo sufficiente, diceva: spero nella giustizia divina.” I cugini di Roberto sono convinti che la storia della strage debba essere conosciuta dai giovani di oggi. La conclusione dei processi ha definito i contorni dell’azione neofascista e i responsabili, mentre ha perso quota la pista alternativa dell’esplosivo in transito, da parte dei palestinesi, con il consenso delle autorità italiane, esploso accidentalmente: tesi cara agli ex estremisti di destra aretini, in primis Augusto Cauchi, pure lui morto qualche anno fa in Argentina. A provocare la più grande strage italiana fu, invece, un ordigno piazzato proditoriamente nella sala d’aspetto della stazione, dicono le sentenze. Azione mirata a tenere in scacco il Paese con la strategia della tensione. Barbarie.
Giancarlo aveva solo 9 anni quando Roberto morì. “Ricordo quando tornava dal militare e veniva a trovarci. Ho dei flash: lui che mi fa salire sul trattore o che gioca al campo sportivo…” Giancarlo custodisce con cura tutte le cose e i ricordi di Roberto, reliquie di un ragazzo normale al quale l’eversione ha strappato la vita.
Walter in quel periodo era militare come Roberto, ma in Friuli. “Lui poteva tornare spesso a casa. Gli dissi: che fortuna che hai! E invece… Seppi cosa era successo e corsi a Bologna: ricordo lo strazio, il sangue, le salme composte all’ospedale.” I ricordi della vita a San Leo: “Roberto era buono, timido, amava il suo paese e la vita. Avevamo fatto insieme domanda per la Motorizzazione, dove poi io sono entrato a lavorare. A quell'età pensi di essere immortale. Invece successe quella tragedia enorme e mi chiesi: dove sono andati tutti i suoi sogni? Perché?”
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