Caso Guerrina Piscaglia
Gratien (padre Graziano) e la donna uccisa, Guerrina
La Diocesi di Arezzo Cortona Sansepolcro non è in alcun modo responsabile dell’omicidio di Guerrina Piscaglia commesso l’1 maggio 2014 dal vice parroco di Cà Raffaello, padre Gratien Alabi Kumbayo, che sta scontando in carcere 25 anni di reclusione anche per il reato di distruzione di cadavere. È arrivata ieri l’attesa sentenza del giudice Fabrizio Pieschi, del tribunale di Arezzo, sezione civile, sulla complessa e oscura vicenda ambientata nel comune di Badia Tedalda. Secondo il giudice “l’omicidio non è stato né agevolato né reso possibile dalle funzioni pastorali” del prete, che era stato inviato dalla Diocesi aretina a Cà Raffaello. “Alabi non ha agito sfruttando la propria posizione, né vi è prova che abbia tratto vantaggio dalla propria funzione religiosa nell’attuazione del proposito criminoso”.
Pertanto, il marito della donna assassinata (corpo della Piscaglia mai ritrovato) ed il figlio disabile, non avranno nessun risarcimento economico della Chiesa, come pure nulla devono pagare i padri Premostratensi di Roma, l’ordine al quale il prete del Congo apparteneva prima di essere estromesso e ridotto allo stato laicale.
È il solo Alabi, detto popolarmente padre Graziano, 55 anni, che deve invece pagare 220 mila euro al vedovo Mirco Alessandrini e 350 mila euro al figlio della parrocchiana, Lorenzo. A questa cifra vanno aggiunte le spese legali, 30 mila euro, per un totale di 600 mila.
È dunque questo l’esito della causa civile, cui farà seguito nei prossimi mesi quella intentata dal ramo familiare Piscaglia, di Novafeltria, sempre davanti al tribunale di Arezzo.
Guerrina, che aveva 49 anni, si era invaghita perdutamente del sacerdote di colore con il quale si scambiava messaggi in continuazione. Il primo maggio di 11 anni fa la donna sparì nel tragitto a piedi da casa alla canonica. Secondo il processo fu ammazzata dal prete: era diventata pericolosa, scomoda. Nessuno vide nulla: mai trovate tracce di sangue, nessuna “pistola fumante”, però i clamorosi depistaggi con il cellulare della vittima fatti da Alabi e i dati delle celle telefoniche, hanno inchiodato il congolese (che non ha mai confessato) con sentenza definitiva sigillata dalla Cassazione. Caso giudiziario chiuso, ma resti del corpo introvabili e dubbi su possibili complicità non rivelate.
Il giudice Pieschi, nella sentenza civile, argomenta che vi sarebbe stata responsabilità del ministro della Chiesa se l’omicidio “si fosse svolto a causa o come conseguenza diretta dello svolgimento di incombenze o attività legate al sacerdote”. E fa l’esempio calzante quanto suggestivo del confessionale.
Non rileva, per la sentenza (appellabile), che padre Graziano esercitasse una particolare attrazione su Guerrina per il suo ruolo religioso, frequentasse la famiglia Alessandrini come punto di riferimento pastorale e anche di aiuto al ragazzo disabile. Come pure non hanno peso, per il giudice, certi aspetti emersi a suo tempo: le segnalazioni alla diocesi andate a vuoto di atteggiamenti particolari del sacerdote, sopra le righe, come quella strana relazione.
“La qualità di vice parroco e le attività svolte dall’Alabi presso la comunità dei Cà Raffaello” riporta un passaggio della sentenza “hanno al più agevolato la conoscenza fra lo stesso e la povera Guerrina”. Il suo essere vice parroco, insomma, è stata “occasione per il compimento della condotta criminosa” ma “non ha agevolato la commissione del delitto”. Il giudice si riporta così alla decisione che prese a suo tempo la Corte d’Assise di Arezzo quando definì non ammissibile la presenza nel processo della Diocesi come “responsabile civile”.
Il verdetto è comunque impugnabile da parte degli Alessandrini, che sostengono le proprie ragioni con gli avocati Nicola Detti e Francesca Faggiotto.
“Non condividiamo alcuni passaggi della sentenza, perché nella documentazione che abbiamo prodotto, e che era stata acquisita nel processo penale, vi era la prova che la Diocesi sapeva delle condotte del frate e doveva intervenire prima dell’1 di maggio 2014, rimuovendo il frate”, dichiarano Detti e Faggiotto, che potranno impugnare il verdetto.
“L’occasionalità della frequentazione tra i due è nata proprio dal fatto che Alabi era un prete” aggiungono, e sottolineano: “Il Tribunale non ci ha condannato alle spese (nonostante la soccombenza nei confronti della Diocesi) perché la questione è stata complessa.” In più, aspetto tutt’altro che secondario: “Ora con questa sentenza Mirco e Lorenzo potranno accedere al fondo vittime reati violenti (fino ad oggi non era possibile)”.
La Diocesi di Arezzo, inizialmente coinvolta quando era vescovo Riccardo Fontana, ora guidata dal vescovo Andrea Migliavacca, è assistita dall’avvocato Claudio Scognamiglio, mentre l’Ordine dei Premostratensi è difeso dagli avvocati Francoise Marie Plantade, Lucilla Bacci e Cristiano Locci.
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