Lo scrittore
Emilio Salgari, una vita piena di tragedie
Ci ha regalato eroi come Sandokan e Il Corsaro Nero. Ci ha fatto sognare da bambini le Tigri di Mompracen e la Perla di Labuan. Le pagine dei suoi romanzi ci hanno esaltato, emozionato, divertito ed entusiasmato. E alle generazioni precedenti, quelle che difficilmente nella loro vita avrebbero mai preso un aereo, ha fatto immaginare paesi lontani, le loro bellezze, i loro profumi. Eppure lui, Emilio Salgari, ha vissuto una vita senza mai allontanarsi dall'Italia e densa di dolori e di disgrazie che alla fine l'hanno spinto al suicidio.

La tomba di Emilio Salgari
Nato a Verona nel 1862, Salgari proveniva da una famiglia di modesti commercianti. Fin da giovane sognò il mare: nel 1878 si iscrisse al Regio Istituto Nautico di Venezia, con l’aspirazione di diventare marinaio, ma non ottenne mai la licenza. L’unico viaggio vero — come passeggero su una nave scuola e su un mercantile adriatico — fu ben poca cosa rispetto alla vastità degli oceani che popolavano la sua fantasia. Così, mentre generava mondi esotici e lontani, la sua vita reale rimase segnata da limiti e sogni irrealizzati. Fin da questi primi anni, si fece strada però una consapevolezza dura: il mare delle sue ambizioni poteva restare solo immaginario. A partire dagli anni Ottanta-Novanta dell’Ottocento, Salgari conobbe un grande successo: romanzi e racconti, pubblicazioni a puntate su giornali, saghe memorabili come quelle del ciclo indo-malese e poi dei corsari. Successi che però non riuscirono mai a garantirgli la sicurezza economia.
Kabir Bedi nei panni di Sandokan
Eppure, nonostante la fama - e perfino un titolo nobiliare conferitogli nel 1897 - la sua condizione economica restò sempre precaria. Anzi: i cosiddetti guadagni non bastavano a sopravvivere. I contratti imponevano ritmi assurdi: secondo alcune ricostruzioni, era costretto a scrivere tre libri l’anno, ovvero tre pagine al giorno senza sosta. Per rispettare queste scadenze finì ostruito da fumo (si racconta arrivasse a cento sigarette al giorno) e da un continuo ricorso al vino. E dire che la popolarità ottenuta non gli diede tregua: pubblicazioni, giornali, continui impegni, immaginari da alimentare. Ma tutte queste fatiche, sovrapposte a una compensazione economica misera, segnarono un lento logoramento — non solo fisico, ma soprattutto morale.
I dolori più acuti, però, arrivarono dalle tragedie familiari. Quando aveva 25 anni perse la madre e due anni dopo il padre si tolse la vita gettandosi dalla finestra perché credeva di essere gravemente malato. Nel 1892 sposò l’attrice Ida Peruzzi, da cui ebbe quattro figli. La tenaglia delle disgrazie si chiuse definitivamente a partire dal 1903. In quell’anno la moglie Ida cominciò a mostrare gravi segni di malattia mentale. Le spese per le cure - in una condizione già disastrata - aggravavano i debiti di Salgari. Con il ricovero della moglie in un manicomio, Salgari si trovò solo, con quattro figli da mantenere e con un peso insostenibile sulla coscienza. Prima provò ad uccidersi gettandosi su una spada, ma fu salvato dall'intervento della figlia maggiore. Ma al secondo tentativo ci riuscì. La mattina del 25 aprile 1911, lo scrittore uscì da casa a Torino con un rasoio in tasca. Si diresse verso un boschetto in Val San Martino — un luogo caro, dove tante volte sognava giungle e isole con i figli. Lì si tagliò la gola e il ventre, scegliendo una morte che evocava i rituali samurai, quasi un macabro omaggio alle passioni narrative che per anni lo avevano animato. Accanto al corpo furono trovate tre lettere: per gli editori, per i giornali e per i figli. E una penna rotta, simbolo del suo gesto finale: una condanna, un grido, un epitaffio per l’anima di un uomo tutto sacrificio. Agli editori scrisse: "A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali… Vi saluto spezzando la penna".

Ida Peruzzi, moglie di Emilio Salgari
L’umiliazione, la stanchezza, il senso di sconfitta, il vedere la propria famiglia disfarsi, l’aver dato fatiche immense pur senza dignità né serenità, tutto questo l'aveva consumato dall’interno. Molti biografi ritengono che a logorarlo non fosse tanto la povertà in sé, quanto la consapevolezza di aver dato - con penna e immaginazione - milioni di sogni al pubblico, senza ricevere nulla se non debiti, solitudine, disperazione. Ma l’orrore non si fermò con la sua morte. La famiglia che aveva cercato di proteggere cadde presto in una spirale di nuove tragedie. Nel 1914 la figlia primogenita morì a soli 24 anni per tubercolosi. Nel 1922 la moglie si spense in manicomio. Uno dei figli, Romero, si suicidò negli anni Trenta. L'altro, Nadir, perse la vita in un incidente in moto. Infine, l’ultimogenito, Omar. che pure aveva tentato di portare avanti l’eredità letteraria del padre, si tolse la vita nel 1963. La famiglia che un tempo era legata a speranze e sogni, venne devastata da lutti, follia, autodistruzione, incidenti. Alcuni giornali arrivarono a parlare di una "leggenda nera" che gravava sul nome dei Salgari.
È tragicamente ironico: l’uomo che fece sognare generazioni con eroi impavidi, navi pirata, giungle oscure e isole magnifiche, non vide mai quelle terre. La sua esistenza fu consumata da una continua, implacabile fatica; da debiti; da malattie; da sventure; da lutti; da depressione. Scrisse oltre duecento romanzi e racconti, plasmò un immaginario vastissimo, diede vita a figure immortali come quelle del ciclo dei pirati della Malesia. Eppure in vita non poté permettersi che l'onorata povertà, in un appartamento modesto a Torino, in cui stando alle cronache viveva con bambini, animali, quattro, cinque stanze, una scimmia, un pappagallo, diciotto gatti, un cane… e una penna che scriveva sogni impossibili. Quella penna, che tanto ha fatto volare l’immaginazione, alla fine gli fu spezzata da lui stesso, un gesto ultimo e disperato. Una fine che rispecchia in pieno la contraddizione di un destino crudele: grande testimone di avventure lontane, ma vittima della propria genialità, della propria sensibilità, delle ingiustizie del mondo editoriale e dell’indifferenza della buona società.
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