La storia
Nadia Frulli, iniziò al Corriere a soli 18 anni
Era l’estate del 1996. Tre giorni prima ero di fronte alla commissione d’esame, dovevo sostenere la prova orale della maturità. Tre giorni dopo, senza nemmeno conoscere il voto finale, ero davanti a un portone di piazza Risorgimento. Jeans a vita bassa, maglietta a maniche corte, la sensazione di un caldo opprimente (nonostante quel luglio la massima non avesse mai superato i 32,2 gradi) e la consapevolezza che se avessi suonato quel campanello tutto sarebbe cambiato. E’ stato così che sono arrivata al Corriere di Arezzo. Con uno zainetto sulle spalle che conteneva a mala pena l’incoscienza e l’entusiasmo dei 18 anni, la paura di chi fa un tuffo nel vuoto e l’adrenalina di accettare una sfida.
Da sinistra Felice Cini, Gianni Alberti, Luigi Alberti, Charon Carraturo, Nadia Frulli, Sonia Fardelli, Luca Serafini, AnnaMaria Verdinelli, Andrea Avato, Grazia Barchi, Francesca Muzzi e Luciana Giacinti
Al secondo piano di quel palazzo, intanto, la redazione era al lavoro. I rumori, che presto sarebbero diventati la colonna sonora di un lungo periodo della mia vita, arrivavano fino alle scale. I telefoni squillavano senza sosta, interrotti di tanto in tanto da un trillo anomalo: quello del fax. La posta elettronica era infatti ancora appannaggio di pochi: i comunicati stampa arrivavano, a raffica stampati sulla carta del telefax. I collaboratori dettavano i loro pezzi per telefono. Ero di fronte all’ultimo baluardo del giornalismo tradizionale, quello senza cellulari che scattano foto, senza social, senza messaggi whatsapp. Basato sulle fonti confidenziali, sulla credibilità e l’autorevolezza del giornalista. Sulla lealtà di chi ogni giorno raccontava la vita vera, senza mai risparmiarsi. Ma non potevo saperlo.
Il primo impatto fu travolgente. In quelle stanze, di fronte ai pc, parlavano tutti un linguaggio nuovo, composto da parole che acquisivano un significato completamente diverso rispetto a quello che per me avevano sempre avuto: c’era il timone e c’era il menabò, c’era la civetta, l’apertura, il piede e il taglio medio. E ancora la prima, il soppalco, la spalla. Un lessico che per diventare giornalista doveva essere appreso in un batter di ciglia. Ma soprattutto, riga dopo riga, titolo dopo titolo, prendeva forma scritta la storia della mia città. I fatti, gli avvenimenti che avrebbero segnato Arezzo erano tutti lì, sotto ai miei occhi. Gli altri li avrebbero scoperti solo l’indomani comprando il giornale. Sembrava una magia.
La redazione di fine anni Novanta era nutrita. Trentenni, preparati, instancabili segugi a caccia di notizie, i giornalisti del Corriere di Arezzo si rivelarono maestri, amici e per me, che per 8 anni sono cresciuta in quella redazione, trascorrendovi la fine dell’adolescenza e i primi anni dell’età adulta, delle guide. Un mese dopo l’ingresso in redazione arrivò il primo articolo firmato: era dedicato (e con il senno di poi, non poteva essere altrimenti) alla piaga dell’abbandono degli amici a 4 zampe durante il periodo estivo. La mattina comprai il giornale: per una settimana fu il mio trofeo, da sventolare ovunque. Poi arrivarono gli articoli di attualità, quelli dedicati agli eventi, i testinaggi.
Il tempo passava e la storia di Arezzo scorreva sulle pagine del Corriere. Vota la voce, Grignani e la sua prima volta di fronte a un pubblico in piazza Grande, Arezzo Wave e la Giostra del Saracino, le elezioni, la giunta Ricci, quella Lucherini e quella Fanfani, villa Wanda e i lingotti d’oro trovati nel giardino. E poi l’impatto con la cronaca nera (guidata da un maestro come Luca Serafini), i crimini e i delitti. Otto anni volati via, in un soffio. Otto anni di lavoro intenso. Una formidabile scuola di vita. Ma anche un terribile periodo di precariato. Durante il quale ho imparato un mestiere – il più bello del mondo – e ho anche trovato l’amore. Perché in quella redazione ho incontrato mio marito. Come? Dettando i pezzi per telefono. Dietro la cornetta – anzi il dimafono – ho infatti scoperto la persona con cui avrei condiviso il resto della mia vita.
L’ora dell’addio è arrivata con la fine del 2003, quando la mia vita professionale prese un’altra direzione. Restano i ricordi più belli, quelli legati ai primi tempi, a quella redazione di piazza Risorgimento dove ero entrata col batticuore chiedendo all’allora capo servizio Mauro Bellachioma di poter “imparare” un mestiere. Lo stesso che dopo quasi 30 anni continuo a fare. O meglio, a imparare.
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