La storia
Laura Pugliesi tra le prime giornaliste del Corriere
Formidabile quel 1985. Il 13 gennaio l'Italia fu sommersa da una nevicata rimasta nella storia. Lavoravo a Teletruria e da poco, grazie a quel Tg ero iscritta all'Ordine dei Giornalisti (novembre 1984), come pubblicista. Studiavo Giurisprudenza a Firenze e avevo quasi finito gli esami, ne mancava solo uno sui 26 previsti. In estate avrei potuto laurearmi e poi... chissà, magari fare il concorso in magistratura. Intanto ogni pomeriggio andavo in TV, in redazione c'erano il direttore Gianfranco Duranti e i colleghi, Mauro Bellachioma e Carlo Casi. Le strade erano piene di neve ghiacciata. Andavo a lavorare a piedi e la sera, dopo il Tg, si tornava a casa, sempre a piedi.
Fu una di quelle sere che arrivò la svolta che avrebbe cambiato per sempre la mia vita. Duranti e io camminavamo, attenti a non scivolare, quando lui si rivolse a me: “Qui nasce un giornale, tu che fai?”. Era l'occasione della vita, potevo fare la giornalista a tempo pieno, diventare professionista: un sogno accarezzato da anni, rimasto nel cassetto, perché ad Arezzo la gente è laboriosa ma leggeva poco. Non c'era mai stato un quotidiano, solo la cronaca locale de La Nazione, e le possibilità di entrarvi pari a zero. Risposi: “A giugno mi laureo, se mi aspettate sono con voi”. Ma Gianfranco esigeva una risposta immediata: “Il treno passa ora”. In un istante ho scelto, ho messo da parte Giurisprudenza e tutto il mio percorso: “Allora prendo il treno”.
Cominciò così l’avventura più entusiasmante della mia vita: far parte del gruppo ristretto di giovani, tre uomini e tre donne, che avrebbe fondato ad Arezzo, per la prima volta, un giornale quotidiano. Una sfida da far tremare i polsi. Il giornale, che si sarebbe chiamato Corriere Aretino (pensammo che Aretino e non di Arezzo fosse più vicino alla gente), nacque dentro la sede di Teletruria. Nei giorni seguenti arrivarono il direttore Giulio Mastroianni, professionista di gran classe che era già stato, fra l’altro, direttore de Il Tirreno, e dirigeva il Corriere dell'Umbria, e l'editore, Leonello Mosca, perché il nuovo giornale sarebbe stato il primo "figlio" del Corriere dell'Umbria. Arrivò anche la Manzoni, la concessionaria di pubblicità con uno dei suoi dirigenti, Antonio Freschi.
Gianfranco Duranti rimaneva il direttore di Teletruria, ma era grazie a lui e al suo ruolo di "garante" che la nuova creatura avrebbe visto la luce. Tutto successe in fretta. Arrivarono i computer, una novità assoluta. Avevano un che di infernale, dotati di schermi verdi e di due driver nei quali inserire floppy disk morbidi e grandi. Uno dei floppy aveva il programma di scrittura, che la macchina leggeva con un sinistro cra cra, l'altro serviva per scriverci sopra. Poi c'era il modem e un commutatore sulla linea telefonica, quella con il doppino di rame. Tu scrivevi il pezzo, lo salvavi sul dischetto, commutavi la linea, e... inviavi l'articolo via modem a Perugia, dove c'era la sede centrale del giornale. Il "miracolo tecnologico" andava ad una velocità di 32 byte! A Perugia un collega ti dava la conferma, al telefono, che il tuo pezzo era arrivato... oppure no, come accadeva più spesso. E allora ricominciavi.
Lavorammo freneticamente fino al D-day, il 3 aprile 1985. Fu la data scelta per fare uscire il primo numero del giornale. Perché? In principio il giorno prescelto era l'1 aprile, ma l'obiezione “Se scegliamo il primo aprile non ci prendono sul serio, penseranno ad uno scherzo” convinse tutti. Intanto era arrivato anche il vicedirettore, Paolo Farneti, l'uomo "di macchina" che insieme a noi fece nascere il giornale, che aveva portato un librone, chiamato "uggiario", e ci insegnò le prime nozioni per fare timone e menabò. A me sembravano termini astrusi, come le nozioni su titolazione e impaginazione: occhiello, titolo, sommario, catenaccio; apertura, spalla, taglio, taglio basso, l'impaginazione, con foto o senza, la giustezza. Eravamo all' avanguardia tecnologica, in un mondo che fino ad allora aveva visto macchine da scrivere e composizione a piombo.
“Scrivete direttamente a computer”. Fu il comando di Farneti. E io, terrorizzata, feci la furba: scrivere a macchina e poi copiare. Ma fui vista e il foglio di carta strappato in mille pezzi e buttato nel cestino. “Ora lo scrivi di nuovo, e non ci provare più”. Lo feci, ma da Perugia dissero che mancavano due righe e io, bloccata, non riuscivo a scriverle. Fu Farneti a scriverle e quel pezzo, un'intervista al presidente del Tribunale Arrigo Borri, con la mia firma, era l'apertura del primo numero del Corriere Aretino.
In vista del D-day era stata organizzata una presentazione del giornale alla Camera di Commercio, dove una foto immortalò il momento e il gruppetto dei protagonisti: editore, direttore, vicedirettore, redattori e alcuni collaboratori. Io c'ero. Il tempo volò, e pochi mesi dopo il giornale aveva già superato la fase critica ed erano arrivati altri colleghi. Fra questi Luigi Alberti e un po' di tempo dopo Sonia Fardelli e Luca Serafini. In breve sono arrivati tantissimi altri colleghi e colleghe, i tecnici e le poligrafiche, chiamate tastieriste, che raccoglievano via dimafono i pezzi dettati dai collaboratori e li scrivevano a computer. Vorrei nominarli tutti.
Nell'agosto 1985 l'editore Mosca acquistò un altro quotidiano, che entrò a far parte del gruppo, era La Città di Firenze, che aveva una quarantina di giornalisti. Nel giugno 1986 nacque un altro "figlio" in Toscana, il Corriere di Siena e poco dopo, ad Ancona, la Gazzetta di Ancona, ed entrò in società un altro editore, il costruttore Edoardo Longarini. La crescita del gruppo divenne tumultuosa: negli anni '90 le testate erano diventate 18, coprivano l'Italia dal Veneto, con Vicenza e Treviso, alla Lombardia con Brescia, all'Emilia Romagna, alle Marche, Umbria, Toscana e Lazio, con Viterbo. E chissà, avrebbero potuto espandersi ancora.
I dipendenti erano diventati ormai 400. Moltissimi giovani ebbero l'opportunità di diventare pubblicisti, praticanti e professionisti proprio grazie al gruppo dei "Corrierini" e sono poi diventati firme autorevoli di altre testate, tanti capiservizio, capiredattori, vicedirettori, alcuni sono diventati direttori. Tutto era nato dal Corriere dell'Umbria e da quel primo "esperimento di filiazione" che era stato il Corriere Aretino. Il giornale, via via che cambiava l'assetto degli editori, cambiava nome: si chiamò Gazzetta di Arezzo, poi nuovamente Corriere Aretino e infine Corriere di Arezzo.
Non dimenticherò mai l'esperienza di quei giorni e di quegli anni che mi videro nella pattuglia dei fondatori e mi fecero vivere, da quel gennaio 1985 fino all'autunno del 1994 l'esperienza professionale, ma anche personale, più esaltante della mia vita. Arezzo è stata in quegli anni, grazie a Teletruria e al Corriere, una fucina di nuovi giornalisti e il panorama informativo si è ampliato in maniera esponenziale. Da lì sono nate altre esperienze e si sono moltiplicate le occasioni di democrazia e di partecipazione. L'informazione era diventata capillare, la gente veniva costantemente in redazione e noi non perdevamo nessuno dei momenti di dibattito e di confronto che si sviluppavano in città e in provincia.
Lo stesso modello si replicava in altre città dove nascevano nuovi giornali, nuove voci che alimentavano partecipazione e democrazia. Noi ci credevamo, era la nostra missione. Ero diventata professionista, dopo aver superato il mitico esame di stato, insieme ai colleghi Brocchi e Salvi, nel giugno 1987. Facemmo una grande festa, con tutti i colleghi, il direttore, il vicedirettore, il caporedattore che ora faceva parte della redazione di Firenze e venne apposta. Nel 1990, ero già vicecaposervizio. Il direttore mi chiese di fare parte di una task force (così disse, ma eravamo solo in quattro!) per andare a Brescia, ad aiutare i colleghi, che avrebbero fondato un nuovo giornale: la Gazzetta di Brescia. Anche loro, come noi solo 5 anni prima, lavoravano in Tv e nulla sapevano di carta stampata. Rimasi finché il giornale non decollò, poi tornai ad Arezzo. Devo moltissimo a Teletruria e al Corriere, a tutte le persone con le quali ho condiviso quegli anni magnifici, nei quali sentivi di dare un contributo alla comunità, e i colleghi con i quali si divideva gran parte della vita, erano anche i migliori amici. Con loro spesso, a notte fonda, si andava in pizzeria.
Laura Pugliesi con Ivo Brocchi e Romano Salvi
PS. Alla fine mi sono laureata e ho pure provato a farlo il concorso in magistratura messo da parte nel gennaio 1985, ma non sono mai diventata magistrato. Sono una giornalista, ho avuto altre esperienze, anche appassionanti, ma il coinvolgimento, l'adrenalina e la familiarità con i colleghi, del periodo trascorso al Corriere e alla Gazzetta di Arezzo non li ho più rivissuti.
*Iscrivendoti alla newsletter dichiari di aver letto e accettato le nostre Privacy Policy